Vivo
in una periferia, il quartiere Scampia di Napoli, divenuto simbolo di degrado,
di malavita organizzata, di emarginazione sociale e culturale. In questo senso
sono attirato da quello che il vescovo di Roma Francesco ha detto più volte,
fin dall’inizio del suo dialogo con i cristiani e i non cristiani, richiamando
l’attenzione verso le periferie del mondo. Il suo invito a vivere le periferie
ha un significato di grande forza innovativa anche se da sempre la chiesa
missionaria è presente in ogni continente, al servizio di tanti popoli che sono
lontani dai centri del potere e del benessere.
Ci
domandiamo che intende Francesco quando parla di periferie. Frutto della
pianificazione urbanistica, la periferia, soprattutto per le grandi città,
rappresenta la soluzione all’emergenza di quel fenomeno di migrazione interna
tipico della rivoluzione industriale.
Intere popolazioni si sono riversate verso le città alla ricerca del benessere
o per rispondere alla domanda di lavoro, abbandonando culture di appartenenza,
tradizioni familiari, ambientali ed anche religiose. La speculazione edilizia
ha sfruttato una tale emergenza costruendo nuovi insediamenti in cui spesso
mancano opportunità di incontro, di socializzazione, di spazi verdi, oltre alla
povertà di servizi essenziali per una vita dignitosa.
Il
profilo di tante periferie urbane fa risaltare modalità abitative che hanno per
la densità di abitanti, il carattere di alveari, di casermoni senza anima e
bellezza, costringendo famiglie e persone all’anonimato e a un desiderio
naturale di chiusura e di difesa o di evasione e di fuga. Doloroso è il
contrasto con la presenza di insediamenti residenziali, sia all’interno delle
città, sia in una periferia dorata, in cui il benessere e la ricchezza
presentano una sfacciata esibizione di potere, di risorse, come in un
arroccamento di sicurezza che ne fa vere e proprie cittadelle fortificate.
Potremmo
dire che le periferie, terra di povertà e di miseria, sono funzionali al
benessere di questa diversità di ceto sociale. Si riproducono quelle
separazioni che la nobiltà e la ricca borghesia realizzavano con la costruzione
di castelli e palazzi a cui la plebe o la popolazione in genere non era autorizzata
ad accedere se non per fornire servizio umile, spesso manovalanza sotto pagata
e sfruttata.
Permangono
le evidenti sofferenze di una così vasta popolazione emarginata e non garantita
che per lo più va considerata proprio “periferica” rispetto ai centri del
potere e dei paradisi dove vivono i più ricchi. A Davos nel recente Forum si
parla delle 85 famiglie più ricche del mondo che hanno le risorse
corrispondenti al 50 per cento dell’intera popolazione mondiale. E’ una
proporzione fra centro e periferia che grida vendetta, nell’ottica della stessa
giustizia divina, di quel disegno del Regno di Dio in cui la dimensione della
fraternità, dell’eguaglianza e della equità sono il segno della stessa
benedizione del Creatore.
A
buona ragione Francesco parla nella “Evangelii gaudium” di “disequità”, termine
da lui stesso coniato, che riassume lo scandalo della diseguaglianza congiunto
alla esperienza dell’ingiustizia. Non si tratta solo e più di una periferia
spaziale, ma come è spesso ripetuto, di una periferia esistenziale, che diventa
segno di una mancanza di dignità delle persone e delle intere popolazioni. Quello
a cui Francesco preme indirizzare le coscienze è proprio evidenziare il più
ampio fenomeno sociale e umano, lo scandalo della separazione, delle mille
forme di esclusione, di dolorosa povertà reale che definisce vera e propria
miseria, materiale, morale e spirituale, nel recente messaggio per la Quaresima
di quest’anno.
Non
è solo nelle periferie esterne alle città che ritroviamo una popolazione vittima
di un tale sistema di esclusione. Spesso negli stessi centri storici ci sono
ghetti di miseria, oggi anche rappresentati da minoranze etniche, di immigrati,
sfuggiti alla violenza dei loro paesi di origine, in cerca di sopravvivenza, di
libertà e di una speranza di vita dignitosa e pacifica. In tante nostre città
ne sono una presenza dolorosa e scandalosa i campi dei nomadi per esempio rom,
vere e proprie baraccopoli che anche se in piccolo, ricordano le favelas ormai
presenti in tutte le capitali del mondo. Ogni luogo in cui si vive esclusione,
emarginazione e miseria si può definire periferia, come rigetto di un’umanità
che non serve alla vita e alla sicurezza di quella che viene definita la
società opulenta.
Francesco
indica una strada da seguire, iniziando dal visitare, dal capire e dal farsi
carico di tali realtà. Potremmo dire che la conversione parte dai piedi, dal
camminare fra la gente, nel varcare le soglie di quelle case in cui dieci
persone abitano in due stanze e che condividono il gabinetto sul pianerottolo
con un’altra famiglia che divide altre due stanze.
Per
capire, per conoscere, per parlare è necessario varcare delle soglie, come si
fa entrando nelle carceri, altre periferie che spesso assomigliano a discariche
umane. Quanti cancelli bisogna varcare prima di poter abbracciare un detenuto
che ha voglia di redimersi, di cambiare vita, sempre che la società civile sia
in grado di accoglierlo e di offrirgli un nuovo cammino di legalità e di
lavoro. Se riconosciamo la presenza delle periferie esistenziali è dovere di
coscienza e di cultura aggiornarsi di continuo sulle cause che si succedono nel
moltiplicare i fenomeni di esclusione e di emarginazione: e non sono solo cause
immediatamente riconducibili a fattori economici.
La
dispersione scolastica e l’abbandono che per esempio affliggono i ragazzi delle
periferie, è causata dall’inadeguata attenzione e competenza che la scuola
presta a quei processi di apprendimento e di acquisizione del linguaggio che in
ambienti deprivati caratterizza i bambini fin dalla prima infanzia. Non è
possibile che, seduti per ore sui banchi, i bambini, allineati e disciplinati,
possano aprire la mente e il cuore su un mondo diverso da quello grigio, spesso
violento e muto, che alcune famiglie vivono. Né il televisore sempre acceso,
anche di notte, può essere la fonte di riferimenti simbolici che possano
sostituire quei fantasmi che impediscono ai bambini di giocare serenamente, di
comunicare e di vivere un’infanzia di gioia e di gioco. L’ignoranza è spesso la
causa più dolorosa che blocca lo sviluppo di personalità libere e socialmente
aperte, in grado di partecipare e di raggiungere un livello di responsabilità,
non solo per il vivere personale, ma anche per interagire in progetti
collettivi.
Ritorna
la domanda di come intervenire in una situazione così complessa e dolorosa.
Sull’esempio
di Gesù che aveva la strada come cattedra da cui insegnare ai discepoli, anche
Francesco esce dal palazzo e dalla chiesa per incontrare, per conoscere, per
capire. La sua azione è preceduta dalla commozione e da quel sentire prossimità
con gli ultimi e i più poveri.
Di
certo è difficile per la chiesa, dopo secoli di potere temporale e di strutture
di ricchezza, ritornare ad essere povera come era povero il piccolo gruppo di
Gesù e dei suoi discepoli, ma il porsi come scelta preferenziale vicino ai
poveri, è già un superare barriere costruite in secoli di un’evangelizzazione
basata prevalentemente su un annuncio di dottrina e spesso troppo distante
dalla stessa comprensione del popolo più semplice. Né può bastare la cura di
quella pietà popolare che caratterizza tante periferie, perché si giunga a una
spiritualità di incontro con lo Spirito del Risorto, fermandosi invece a
momenti di culto consolatorio e spesso superstizioso.
Francesco,
ben consapevole di questa situazione della religiosità popolare, orienta il
cuore e la mente dei fedeli sulla persona di Gesù, riferimento centrale della
fede e di un incontro che scalda i cuori e li apre alla speranza. Se penso alle
strade della periferia in cui abito, viene da sorridere per il numero di statue
e di immagini sacre. Per entrare nel cuore della gente è necessario accogliere
le loro sofferenze, accettare le differenze spesso laceranti, per scelte di
vita anche sbagliate, ma con la certezza che nell’abbracciare anche chi è
lontano si può comunicare quel calore che Gesù fa vivere nei nostri cuori.
Allora
la periferia diventa centro, perché fa incontrare attraverso la condivisione
quello sguardo del povero che ti insegna ad amare, a capire, a condividere. La
centralità della periferia esistenziale nel cammino della conversione,
significa spogliarsi delle sicurezze economiche, culturali, di appartenenza
sociale, per condividere con il cuore del povero la sua sete di liberazione ed
esserne partecipi.
Ad
essere realistici, forse l’esempio che Francesco offre alla chiesa e agli
uomini del nostro tempo, è la scommessa più difficile da vincere. E’ più facile
assentire ai discorsi che mettersi sulla strada con lui e vivere quelle
periferie che sono tanto vicine al nostro quotidiano. L’energia necessaria lui
stesso la suggerisce quando la sua preghiera ha valore di semplicità e accomuna
con decisione alla preghiera stessa che Gesù viveva nel sollevare chi era
caduto e a guarire chi era perduto. L’Eucarestia quotidiana a Santa Marta
indica la centralità del farsi pane spezzato, come Gesù e raggiungere le
periferie del mondo con la forza del suo Spirito.
Padre Fabrizio Valletti
direttore del centro di formazione
"Hurtado" a Scampia di Napoli
La
testimonianza per la rivista “Popoli” è pubblicata sull’ebook dal titolo
"In poche parole, Francesco" (EMI) acquistabile su tutte le librerie
digitali.