domenica 27 gennaio 2019
Tra gli ultimi appuntamento del Papa alla Giornata mondiale della gioventù Francesco visita la casa rifugio ispirata al Vangelo della carità. Le storie di chi incontrerà il Pontefice
Oggi Francesco nella casa che accoglie i malati di Aids abbandonati in strada
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Blu elettrico, rosso, giallo ocra. D’un tratto il grigio monocorde della periferia di Juan Díaz si interrompe. E tutto il colore assente si concentra nella piccola struttura che sorge a poche centinaia di metri dalla parrocchia di Santa Maria del Cammino. La porta è spalancata. Ragazzi e anziani si godono il filo di brezza in una pausa dei preparativi. Dentro le pareti sgargianti, si respira un’atmosfera rilassata. Non sembra una clinica o un ricovero. «Non lo è. Che cosa siamo? Un posto dove è vietato morire», afferma perentorio l’amministratore, Eric Rodríguez. Una versione più soft della “regola aurea” della casa è impressa sul muro principale: “Amore di Dio e solidarietà umana per vivere”.

È tutto qui della Casa hogar Buon Samaritano dove oggi si recherà papa Francesco. Da quindici anni il rifugio ospita malati di Aids e persone sieropositive a cui prima la società e poi la famiglia hanno voltato le spalle. «Contrariamente a quanto si pensa, l’Hiv non è democratico. Certo, tutti possono infettarsi e accade, benché ci sia una maggiore incidenza tra i settori più marginali. Non tutti, però, possono curarsi allo stesso modo. Gli antiretrovirali, se presi con regolarità, consentono ai contagiati di tenere sotto controllo il virus. Lo Stato li dà gratis. Ma chi vive lontano dalla città e dagli ospedali, in particolare nelle aree indigene, non ha i soldi per andare a prenderli. Spesso non sa nemmeno che tali farmaci esistano. Ecco perché i tre quarti dei nostri ospiti sono nativi», sottolinea Rodríguez. Sono la marginalità e il pregiudizio di tanti, perfino dei familiari, a condannare a morte i contagiati.

«La fraternità, ispirata dalla fede nel Dio Samaritano, li fa vivere – prosegue l’amministratore –. Noi li raccogliamo sul ciglio della strada “da Gerusalemme a Gerico”, fasciamo le loro ferite con un percorso medico e psicologico, diamo istruzione o formazione tecnica perché trovino un mestiere e, quando ormai possono camminare da soli, li aiutiamo a reintegrarsi nella società. Ripeto: qui non si viene ad aspettare passivamente la morte. Qui si combatte per la vita».

Non è un caso che i primi fondi per il rifugio siano stati raccolti durante una Quaresima tra i fedeli di Santa Maria del Cammino, situata sulla frontiera fra le baraccopoli di Porvenir e Chorrito. Il parroco, padre Domingo Escobar, da qualche tempo, aveva cominciato a ricevere richieste di cibo, di una doccia o anche solo di fare due chiacchiere da parte di sieropositivi e malati di Aids. «Erano poveri e, a causa dell’Hiv, avevano perso anche il sostegno delle famiglie. Non sapevano dove andare. Una volta, uno di loro mi ha detto: “Vengo qui perché è l’unico posto dove non mi accusano. E per la prima volta sento di avere ancora voglia di vivere”», racconta padre Domingo. Da qui l’idea di creare una struttura, piccola, dati i mezzi a disposizione: una ventina di posti. Ma molto attiva.

Il Buon Samaritano – inaugurato il 15 febbraio 2004 – svolge anche una capillare azione di prevenzione e sensibilizzazione. Hiv e Aids sono estremamente diffusi a Panama che, per il suo essere terra di mezzo e di passaggio, registra alcuni dei tassi più alti dell’America Latina. Da quando è stato registrato il primo caso, trentacinque anni fa, quasi 40mila persone hanno contratto il virus, oltre 11mila ne sono morte: quasi una al giorno. Nel 2018 si sono registrati quattrocento nuovi casi.

«Non sapevo nemmeno che cosa fosse l’Hiv o l’Aids prima di ammalarmi. Cinque anni fa, ho cominciato ad avere nausea e a perdere peso. Ci ho messo un po’ per trovare i soldi per il viaggio all’ospedale. Là mi hanno detto che ero sieropositivo. La comunità, gli amici, i genitori, tutti si sono allontanati. Solo una sorella mi è rimasta accanto. Ma, da quando ho perso l’uso della gambe, lei non riusciva più ad assistermi. Così due anni fa sono arrivato qua. Ed è stata la mia fortuna. Perché ho trovato la vita. Non solo perché tengono sotto controllo il virus. Il Buon Samaritano mi ha permesso di conoscere Gesù», racconta Raúl Miranda, 31 anni, indigeno Ngäba-Buglé di Soloy, adagiato sulla sedia a rotelle su cui l’ha costretto una tubercolosi cerebrale, “effetto collaterale” dell’Hiv.

«Nell’affetto di quanti mi assistevano senza timore del contagio, senza rimproveri, senza ripetermi che me l’ero cercata, ho visto Dio. Così mi sono fatto spiegare il Vangelo e ho domandato il Battesimo », aggiunge il ragazzo che offrirà la propria testimonianza a Francesco. «Quando me l’hanno chiesto, ho pensato: “Ma perché io?”. Ho fatto a malapena le prime classi delle elementari, non so parlare bene. Sono certo che mi impappinerò per l’emozione... Gli chiederò la benedizione. E lo ringrazierò perché ha scelto di venire fra noi che siamo rifiutati da tutti. Oggi Francesco romperà un muro invisibile. E farà entrare il Vangelo».

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