giovedì 26 febbraio 2009
Uomini contenti della loro scelta vocazionale, ma subissati dalle richieste della gente. Persone spesso in prima linea, però sempre più attente a riservare un tempo per sé: per la preghiera e pure per «staccare» dall’attività. Un libro-inchiesta di Laura Badaracchi sui preti Le nuove leve non amano il modello «monacale» del prete: da parte dei più giovani proviene un appello alla vita comune, un seminarista su tre vorrebbe stare in una comunità di presbiteri
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«Ora mi annoio più di allora, neanche un prete per chiac­chierar » . Beh, non è detto che la battuta di Adriano Celentano nella celebre Azzurro sia poi ve­ra, oggi: i preti, in Italia, esisto­no ( e resistono) ancora, non co­me nell’iper- secolarizzata Olan­da dove, di recente, un vescovo ha affermato che… ci sono troppi sacerdoti per l’esiguo numero di fedeli. Parroci, impe­gnati tra i poveri, cappellani di movimenti e gruppi, professori di religione nelle scuole, giovani « coadiutori » imbrigliati in mille attività con ragazzi e adolescen­ti: il Belpaese pullula ancora di preti, uno ogni 1800 abitanti. Ma chi sono questi «presbiteri» , parola di etimologia greca ( « i più anziani » ) tornata di moda dopo il Vaticano II, da cui l’ab­breviativo solito? Come vivono? Cosa fanno? Indaga col piglio della giornalista Laura Badarac­chi ( collaboratrice di Avvenire) nel volume Fare il prete non è un mestiere ( Edizioni dell’asino, pp. 264, euro 12), in uscita oggi. Una miniera di notizie sul mon­do clergy e un panorama sul­l’ambiente presbiterale nostra­no, perimetrando il campo di interesse al solo clero secolare. Che oggi ammonta a 33 mila u­nità, mentre all’inizio del Nove­cento si raggiungeva quota 68.848: l’età media è 60 anni, u­no su 8 ha più di 80 primavere; la maggior parte si trova al Nord Italia ( 17.886), una porzione minore al Centro ( 6172) e una mediana al Sud ( 9637). Ma co­me vive oggi un prete? Prendia­mo il modello parrocchiale, an­cora largamente diffuso nello Stivale: 25.807 le parrocchie og­gi esistenti, dove il parroco è il perno su cui ruota la vita della comunità. L’esempio di don Fa­bio Pieroni, 52 anni, prete da 21, parroco di San Bernardo di Chiaravalle, periferia est della Capitale. Che parte da problemi concreti per delineare attuale del pastore d’anime: «Una volta a papa Giovanni Paolo II fu do­mandato pubblicamente un consiglio per facilitare la comu­nione tra i preti. Rispose: Man­giate insieme! » . Il rapporto tra la formazione in seminario e la vita concreta? « Noi preti di par­rocchia siamo davvero in prima linea e leggiamo sui libri dei grandi teologi o psicologi o so­ciologi quello che almeno un anno prima avevamo già fron­teggiato, navigando spesso solo a vista». Sempre in ambiente romano, l’autrice riporta la scansione quotidiana della par­rocchia di San Frumenzio ai Prati fiscali, dove la « bottega » a­pre alle 7,45 per le Lodi comu­nitarie, seguite da un’ora di pre­ghiera silenziosa: «Un tempo da difendere, rimandando a dopo la messa colloqui o confessio­ni » . Alle 9 il parroco, il quaran­taduenne don Gianpiero Pal­mieri, celebra l’eucaristia. « E poi inizia il delirio » , la sua scherzosa ammissione. Durante la giornata scattano gli incontri personali: « Cerco di fissare sempre un appuntamento per i colloqui ( 5- 8, tutti i giorni), ac­cogliendo chi viene a chiedere aiuto per leggere alla luce della fede la propria storia. A volte incontro persone psichicamen­te molto fragili, qualche volta chi ha difficoltà economiche; poi ci sono universitari, anziani e pensionati, disoccupati e gio­vani». A scandire la giornata c’è la lettura del breviario, un ob­bligo per ogni prete. E alla sera ecco gli incontri di formazione per adulti, coppie, giovani, ca­techiste… L’inchiesta della Ba­daracchi evidenzia che il mo­dello « monacale » dell’anziano parroco solitario – molto diffu­so – non è più auspicato dalle nuove leve. « Da parte dei più giovani si nota un appello alla vita comune: un seminarista su tre "da prete vorrebbe vivere in una comunità sacerdotale"» , ovvero un gruppo di presbiteri che abita insieme. La solitudine è questione quotidiana per il «don» : il 38% vive solo, uno su quattro pranza solitario, il 37% fa lo stesso a cena. Racconta l’autrice, riferendosi a San Fru­menzio: «Accanto al parroco ci sono altri sacerdoti con i quali vivere un’esperienza comunita­ria a tutto tondo: il venerdì è la giornata dedicata a loro, al pre­sbiterio». Don Palmieri narra del pranzo alle 13, l’Ora media recitata insieme, un momento serale di preghiera e condivisio­ne comunitaria. Vi è poi, sem­pre più diffuso, quello che nei Paesi anglosassoni è chiamato il day- off, una giornata ( a volte settimanale) di distacco dalle attività ordinarie. Capitolo sti­pendio: forse il ministro Bru­netta non sarà contento, ma nella Chiesa si applica la para­bola del servo dell’ultima ora. Per 12 mensilità ( non è prevista la tredicesima) un prete appena ordinato riceve 853 euro, un ve­scovo a scadenza di mandato ( 75 anni) 1300 euro: un parroco con 500 anime piglia lo stesso salario di uno con 10 mila fede­li. Sono poi contenti i « don » di essere tali? Badaracchi risponde citando casi di preti noti, come don Vittorio Nozza, direttore della Caritas italiana: «Di solito bevo il caffè amaro. Qualcuno mi domanda: Come mai? Quasi sempre rispondo che è già mol­to dolce la mia vita. Ed è vero» . Il prete bergamasco – già cap­pellano nelle carceri – snocciola così il suo esser prete: « Una vo­cazione che sa di impasto di terra, cortile, fatica, eventi di forte sofferenza; volti di poveri ' belli' e provocanti, amore e gratuità; chiesa, campanile e scuola come ' luoghi' della co­munità e della socialità; cam­mini di vita realizzati ' in corda­ta' e non da solo; studio brama­to ma schiacciato e sofferto dentro tempi ristretti; testimo­nianze di vita, di sacerdoti e lai­ci, forti e ordinarie; e tanta gra­zia di Dio » . Il teologo don Piero Coda, rettore della neonata uni­versità ( di ispirazione focolari­na) Sophia, guarda con rim­pianto ai suoi anni in parroc­chia: « Ho avuto la gioia di esse­re vice- parroco per una decina d’anni. È stato bellissimo. Ho imparato tanto: a essere fratel­lo, padre, amico. Ho imparato tanto dai giovani ( quanti campi scuola estivi entusiasmanti!), dalle famiglie, dalla comunità cristiana nel quartiere che mi e­ra affidato. È stato un cammino che ha inciso profondamente sulla mia vita». Per don Vinicio Albanesi, presidente delle Co­munità di accoglienza, essere «don» ha qualcosa a che fare con l’incarnazione di Cristo: è  «a vocazione di coniugare pre­ghiera e opere, di tradurre con­cretamente la misericordia del Dio in amore» . Con preti così, vien proprio voglia di «chiac­chierar».
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