giovedì 13 marzo 2014
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Da «pastore con l’odore delle pecore», ad indicare il sacerdote, il vescovo, al cristiano come testimone della gioia, che non può mai essere triste. Dalla centralità delle periferie al dovere di uscire da se stessi per aprirsi agli altri. In questi dodici mesi i fedeli, e non solo, hanno imparato a conoscere le parole chiave di Bergoglio. L’indicazione dell’itinerario per incontrare il Signore, non giudice ma padre misericordioso, che aspetta il ritorno dei propri figli a braccia aperte. PERIFERIE. Sanno bene che cosa intenda papa Francesco quando parla di «periferie esistenziali» che la Chiesa è invitata ad abitare. I sacerdoti di frontiera che vivono le periferie dell’Italia non amano farsi chiamare «preti coraggio». Perché quello che in modo sbrigativo viene definito coraggio è un seme di speranza gettato fra chi si sente dimenticato. «Gesù aveva la strada come cattedra – spiega il gesuita Fabrizio Valletti che guida il centro di formazione "Hurtado" a Scampia, estrema propaggine a nord di Napoli – . Ecco perché la nostra conversione deve partire dal camminare fra la gente, dal varcare le soglie di quelle case in cui dieci persone abitano in due stanze e condividono il gabinetto sul pianerottolo con un’altra famiglia che divide altre due stanze». Si muove fra vie che non hanno nomi don Roberto Meduri, parroco di Sant’Antonio al Bosco di Rosarno, la cittadina della Calabria finita sotto i riflettori per la rivolta dei migranti. «La mia comunità è la più povera della diocesi di Oppido Mamertina-Palmi – spiega –. Qui non esiste toponomastica. Ci sono dodici stradoni e ognuno forma un mondo a sé. Poi c’è la baraccopoli dei braccianti africani, la periferia della periferia, dove si soffre fame e sete. Sembra una bidonville. Eppure è accanto al paese». Così la parrocchia diventa il riferimento. «In una zona così degradata – racconta don Meduri – la Chiesa fa comunità. Anche se manca tutto. Dal tetto filtra l’acqua. Le attività si svolgono nell’aula della chiesa, in qualche prefabbricato o fra la terra battuta. Comunque siamo immersi in una serenità povera che talvolta manca nel cuore delle città dove si trovano altrettante periferie esistenziali perché la propria casa è chiusa all’altro». LEGGI L'INTERVENTO INTEGRALE DI PADRE VALLETTI L’ODORE DELLE PECORE. Quando Gesù parlava in parabole, chi lo ascoltava toccava con mano la zizzania o il granello di senape, tanto per citare due esempi. Pietro Meloni, vescovo emerito di Nuoro, conosce in prima persona l’«odore delle pecore» che papa Francesco chiede ai pastori. «Dobbiamo ricordarci che il buon pastore è Gesù – spiega –. Nel Vangelo di Giovanni si legge che le "pecore ascoltano la sua voce ed egli le chiama per nome". Nella mia terra di Sardegna vi sono ancora pastori che chiamano le pecore per nome, una a una, e le pecore sono felici ogni volta che il pastore è con loro. Quando papa Francesco ha esortato i pastori ad avere l’odore delle pecore, il mondo si è meravigliato, ma era chiaro che lui invitava i pastori ad avere il cuore di Cristo. Il pastore è chiamato a vivere in familiarità con la sua comunità, come il padre con la sua famiglia. E la gente deve sentire che sta giorno e notte con il suo gregge». Il presule attinge dalla Scrittura e dalla patristica per illustrare le parole di Francesco. «L’olfatto è indispensabile alla vita. San Paolo esortava i cristiani a effondere "il buon odore di Cristo". I padri della Chiesa affermavano che Dio Padre è il profumo perfetto e ha donato il suo profumo al Figlio nell’unzione dello Spirito Santo perché trasmetta agli uomini il profumo divino. Così il Papa ci esorta a vivere sempre accanto al gregge con l’odore delle pecore per comunicare il profumo di Cristo». LEGGI L'INTERVENTO INTEGRALE DI PIETRO MELONI MISERICORDIA. Affacciandosi dal Palazzo apostolico per il suo primo Angelus, papa Bergoglio aveva scelto come fulcro della sua riflessione la misericordia. E da allora il tema è riecheggiato in molte occasioni. «Con questo contante richiamo, Francesco ha colto l’esigenza dell’uomo contemporaneo di sentirsi accolto oltre le sue debolezze e il suo smarrimento», spiega il rettore del Santuario della Santa Casa a Loreto, padre Alessandro Tesei. Dietro la Basilica marchigiana l’abbraccio di Dio si sperimenta nelle parole sussurrate fra i confessionali. Lo stesso accade nel Santuario mariano di Caravaggio, in Lombardia. «Nel momento in cui la Chiesa evangelizza – sottolinea il rettore don Gino Assensi – non può non annunciare la misericordia del Signore che, poi, è il cuore del Vangelo. In fondo la lieta notizia è quella di un Dio che vuole riconciliare a sé gli uomini di ogni tempo». Il Papa ha indicato nella misericordia il balsamo per «curare le ferite».«E oggi le ferite sono quelle di cui soffrono i giovani in cerca di futuro o gli adulti che hanno difficoltà relazionali – afferma padre Tesei –. Per questo, quando le persone si accostano al Sacramento della Riconciliazione, si appellano alla bontà di Dio. Ed è questo il volto del Padre che siamo chiamati a mostrare: del resto non ce n’è un altro». E, dopo l’assoluzione, ecco la gioia. «L’incontro col Signore – conclude don Assensi – crea nel cuore in un clima di festa. Ne sono le testimonianza le lacrime di gioia che si scorgono in coloro che escono dai nostri confessionali, riconciliati con Dio e con se stessi». MISSIONE. Si sentono come interpellati ogni volta che papa Francesco ricorre (e lo fa spesso) al vocabolo «missione». Giulia Ceccarelli e Fabio Cento con il loro piccolo di tre anni, Ismaele, sono una famiglia fidei donum che vive in Mozambico lo «stato permanente di missione» indicato da Bergoglio nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium. Trentacinque anni lui, ventotto lei, sono dal 2012 nella diocesi di Maputo, inviati dalla Chiesa di Massa Marittima-Piombino. «Come lascia intende il Papa – raccontano via Internet dal villaggio rurale di Taninga, fra un’interruzione e l’altra di energia elettrica – la missione è uno stato d’animo da cui il cristiano non può prescindere. E non dipende dall’aver fatto le valigie, viaggiato su un aereo per diciassette ore ed essere sbarcati in una realtà che è completamente diversa da quella in cui sei nato. Ciò che conta è essere entrati in quella gioia della Buona Novella che anche fra le ansie, le difficoltà e i problemi aiuta a capire che la costruzione del Regno di Dio passa dal nostro desiderio di andare oltre la nostra umanità». LEGGI L'INTERVENTO INTEGRALE DEI CONIUGI CENTO CULTURA DELL’INCONTRO. Una parola che Jorge Mario Bergoglio conosce bene e che ha scandito il suo ministero sacerdotale e poi episcopale è «incontro». Che, in questo primo anno di pontificato, ha associato al vocabolo «cultura» coniando l’espressione «cultura dell’incontro». Una locuzione che avvertono particolarmente vicina al Centro Astalli di Roma, la «casa» che dà ricovero e speranza ai rifugiati e che Francesco ha visitato lo scorso settembre. «Il Papa – spiega il gesuita Giovanni La Manna che della struttura è presidente – ci richiama a costruire relazioni sane dove nessuno rimanga ai margini. Tanto più se chi rischia di essere escluso è il debole o il bisognoso. La sfida è vincere l’indifferenza. E ciò significa essere disponibili ad accogliere il prossimo in ogni frangente: sia quando bussa alle nostre porte, sia quando ha timore di farsi notare». Bergoglio ha posto l’accento sui «vincoli di comunione» da edificare ogni giorno nel segno della fraternità e della solidarietà. «Direi che il punto di partenza è comprendere che siamo tutti parte dell’unica famiglia umana – afferma il religioso –. Allora sarà normale aprirsi all’altro che non apparirà come un estraneo». GIOIA. Ha dedicato al Vangelo della gioia la sua esortazione apostolica. E in questi dodici mesi papa Francesco ha fatto risuonare spesso la parola «gioia». «Il Pontefice ci invita a cercare la gioia e a custodirla», spiegano Nicoletta e Davide Oreglia, sposi da quindici anni e genitori di cinque figli. Da responsabili dell’Ufficio famiglia della diocesi di Mondovì e da presidenti dell’associazione «Sposi in Cristo» dell’Opera Madonnina del Grappa di Sestri Levante, leggono l’"appello" di Bergoglio come un richiamo a «mettere gli occhi su Gesù che ci apre all’arte del ringraziamento». «Anche nelle giornate più buie c’è in noi almeno una cosa per cui ringraziare. Un gesto piccolo che lo sposo, la sposa, un figlio, un amico ci hanno regalato». E chiariscono i due coniugi: «Ecco cosa vuol dire essere culla della vita: dare testimonianza con la nostra vita che c’è un Dio che ci avvolge con tutto l’amore possibile e generare figli aperti alla speranza e cercatori di gioia». LEGGI L'INTERVENTO INTEGRALE DEI CONIUGI OREGLIA
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