L'arcivescovo brasiliano Helder Camara (1909-1999)
«Chi, ricco o povero, si sente disperato, avrà un posto speciale nel cuore del vescovo. Ma non vengo per aiutare nessuno a ingannarsi, a credere che sia sufficiente un po’ di generosità e assistenza sociale. Ci sono miserie che gridano, di fronte alle quali non abbiamo il diritto di restare indifferenti».
A 55 anni di distanza da quando furono pronunciate – il giorno dell’entrata nella diocesi di Olinda e Recife, l’11 aprile 1964 –, le parole di dom Hélder Câmara scuotono le coscienze contemporanee con la stessa forza di allora. Ora come mezzo secolo fa, «“dom Hélder” ci esorta a non dimenticare i poveri, gli indifesi, gli emarginati. Noi cristiani dobbiamo lottare per i diritti di chi non ha voce, per gli oppressi e i sofferenti. Dobbiamo impegnarci perché sia praticata la pace e la giustizia», spiega fra’ Jociel Gomes, religioso cappuccino e profondo conoscitore del pensiero del vescovo di Olinda e Recife, nato nel 1909 e morto 90 anni esatti dopo.
Per tale ragione, è stato designato postulatore nella causa di beatificazione in corso, di cui il 19 dicembre si è chiusa la fase diocesana. In questi giorni la documentazione – frutto di tre anni di intenso studio, tra ascolto dei testimoni, relazione storica dei periti e analisi teologica degli scritti – arriva a Roma dove passerà all’esame della Congregazione delle cause dei santi. «Non sappiamo quanto tempo durerà il processo – aggiunge il sacerdote –. Da parte nostra, ci impegneremo a seguire con scrupolo e rapidità le indicazioni della Congregazione per abbreviare i tempi. Siamo ansiosi che la testimonianza di vita e santità di monsignor Hélder sia proclamata al mondo».
Una santità tuttora scomoda, come quella di Óscar Romero. «Entrambi avevano una profonda intimità con Dio. Ed entrambi erano pionieri di quanto adesso papa Francesco predica con tanta veemenza: una Chiesa in uscita, capace di raggiungere le periferie geografiche ed esistenziali », afferma fra’ Jociel. «Quando la tua nave, ancorata da molto tempo nel porto, ti dà l’impressione ingannevole di essere una casa, quando la tua nave comincia a mettere radici nelle acque stagnanti del molo, prendi il largo. È necessario salvare a qualunque prezzo l’animo viaggiante della tua barca e il tuo animo di pellegrino», recita una nota poesia di dom Hélder. È una felice coincidenza, dunque, che la sua causa arrivi in Vaticano pochi mesi dopo la proclamazione di san Romero. E di san Paolo VI, con cui Câmara – proprio come il martire salvadoregno – coltivò una preziosa amicizia spirituale.
Oltre a condividere incomprensioni e critiche per la fedeltà al Concilio, al quale entrambi avevano partecipato e da cui erano rimasti profondamente segnati. Fu proprio papa Montini a sostenere o bispinho – il “piccolo vescovo”, come lo chiamavano per la modesta statura – durante i difficili anni della dittatura militare (1964-1985). I generali, di cui Câmara denunciava con coraggio profetico gli abusi, cercarono di screditarlo in ogni modo. Il “vescovo rosso”, lo schernivano a causa del suo impegno evangelico in difesa dei diritti umani e dei poveri che, tuttora, affollano la chiesa delle Frontiere di Olinda, dove è custodita la sua tomba dopo la morte, a novant’anni, nel 1999. Ma Paolo VI non dava credito alle false accuse. «Avevo nostalgia di incontrarvi, di rivedervi» , gli disse nell’ultimo incontro, il 15 giugno 1978. «Fratello dei poveri e fratello mio», lo salutò otto anni dopo, durante il viaggio in Brasile, Giovanni Paolo II. Una riprova di ciò che amava ripetere o bispinho: la «persecuzione è normalissima nella vita cristiana» ma «Dio è con noi».