Comunicare avvicinandosi agli altri - Ansa / Epa
(Qusta domenica, 26 maggio, si si celebra la Giornata delle comunicazioni sociali numero 55). Se ci sono delle “suole da consumare”, queste non sono solo quelle del giornalista che esce dalla redazione, ma anche quelle che ci portano alla sorpresa dell’incontro con l’altro. Una sfida, secondo Pier Cesare Rivoltella, direttore del Centro di ricerca sull’educazione ai media all’innovazione e alla tecnologia dell’Università Cattolica di Milano, che ovviamente passa anche da una nuova educazione all’uso dei media digitali. Rivoltella, assieme a Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio per le comunicazioni sociali della Cei, è curatore del libro-commento (Editrice Morcelliana) sul messaggio di papa Francesco per la 55ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che si celebra oggi. «Vieni e vedi» (Gv 1,46). Comunicare incontrando le persone dove e come sono è il tema della Giornata.
Professore, che cosa vuole dire «venire e vedere» oggi per i professionisti della comunicazione? È sufficiente trovare il tempo di uscire dalle redazioni o forse è necessario anche un cambio di prospettiva personale sul proprio lavoro e sul mondo?
Sarebbe semplice ricondurre il «venire e vedere» a un superamento del giornalismo seduto, quello che si fa davanti allo schermo del computer, anche perché non è poi detto che stare a contatto con i fatti serva a raccontarli meglio o nel maggior rispetto della verità. Oggi credo invece che «venire e vedere» significhi sviluppare un tipo diverso di sguardo: più critico, più attento, problematizzante. Vuol dire non fidarsi delle fonti, saper incrociare i dati sul web, sviluppare competenze sofisticate di ricerca e controllo. È information and data literacy. Per le professioni della comunicazione si tratta di una sfida di aggiornamento importante, un piccolo salto quantico rispetto alla loro formazione tradizionale.
E per chi non lavora nell’ambito comunicativo, che cosa significa comunicare con gli altri nell’ottica del «venire e vedere»?
Vuol dire – per citare il sottotitolo di un bel libro di Olivier Houdé – «pensare contro se stessi»: saper uscire dai propri schemi, non rimanere vittime delle proprie precomprensioni, restare aperti all’altro, sapersi sorprendere. Per dirla con un’altra grande studiosa, Martha Nussbaum, significa esercitare il pensiero posizionale, ovvero sforzarsi di guardare le cose dal punto di vista degli altri. «Venire e vedere» significa rendersi disponibili all’incontro, non fare centro su se stessi.
«Venire e vedere» nella dinamica evangelica è un’esperienza che si realizza grazie alla “guida” di qualcun altro: oggi dove si trovano e chi sono, se ci sono, queste “guide”?
Abbiamo penuria di guide. Viviamo una crisi della testimonianza. C’è bisogno di persone credibili. Un adulto è credibile quando supera l’esame del “fiuto dei ragazzi”, per usare una bella immagine del Papa. Ma anche la Chiesa ha bisogna di credibilità. In una società orizzontale come la nostra, se non sei credibile, se chi ti incontra non “fiuta” in te il testimone, è veramente molto difficile farsi ascoltare.
Al centro della riflessione del Papa c’è anche la mediazione tecnologica: essa porta rischi e opportunità. In che modo è possibile usare gli strumenti tecnologici per «venire e vedere»?
La tecnologia avvicina il nostro sguardo alle cose, lo rende iper-reale. Questo è qualcosa di straordinario, perché veramente rende globale il villaggio come diceva McLuhan, ma comporta anche un rischio. Uno sguardo troppo ravvicinato è uno spazio senza vuoti e senza sfondi, è uno sguardo senza immaginazione, è uno sguardo senza più mistero, è uno sguardo che rischia di cedere alla tentazione del riduzionismo scientista. «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Nel libro-commento lei invita a educare al senso critico nella società del codice. Cosa significa e come avviene questo processo?
La società del codice è la società degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale, una società in cui i dati sono la vera ricchezza e in cui i dati… siamo noi. La sfida medieducativa, in questo contesto, cambia radicalmente. Il problema non è più (o non è più soltanto) controllare il tempo del consumo, moderare l’uso degli strumenti. La sfida vera è come evitare che i nostri comportamenti e i valori che li ispirano siano costruiti da agenti artificiali a partire da quello che hanno imparato sui nostri gusti e le nostre tendenze. Abbiamo bisogno di fare della media literacy education una preoccupazione sociale generale, di investire in educazione. E invece ci preoccupiamo solo di fare leggi per impedire ai bambini di usare il cellulare prima dei sei anni.