mercoledì 25 gennaio 2017
Padre Piero Gheddo

Padre Piero Gheddo

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«Ho(t)tanta fiducia»: quando ha raggiunto gli 80 anni, padre Piero Gheddo ha pubblicato un libro con questo simpatico titolo, alludendo sia all’età sia al carattere ottimista che l’ha sempre accompagnato nella frenetica attività di giornalista e scrittore al servizio della missione e del Vangelo. Nemmeno adesso che di anni ne ha quasi 88 e qualche acciacco fisico in più ha perso la sua visione positiva delle cose del mondo e della Chiesa.

Padre Gheddo, quello di papa Francesco sembra un messaggio scritto apposta per lei: che raccontando le storie dei missionari ha cercato sempre di «comunicare la fiducia per il nostro tempo»…
Ma il nostro tempo è il migliore che gli umani hanno mai vissuto! La tecnica, e soprattutto la bontà e la potenza divina del Vangelo stanno migliorando l’umanità. Certo, c’è sempre chi rimpiange il passato e chi crede di vivere già nel futuro; tuttavia la realtà del mondo è quella che Dio ci fa vivere. Io la partecipo con fiducia e chiedo allo Spirito Santo di illuminarmi, per poter leggere la mia storia e quella dell’umanità e della Chiesa con gli occhi del Padre della misericordia. Allora riesco a vedere il bene anche dove sembra che tutto sia male.

Però lei spesso ha anche raccontato gli scandali del terzo mondo, dalle dittature alla corruzione, dalla fame alle ideologie... Come stanno insieme indignazione e speranza?
Sì, visitando il Sud del mondo ho visto le meraviglie che lo Spirito compie là dove nasce la Chiesa, ma ho anche denunziato corruzione, dittature, ideologie nefaste, di destra e di sinistra. E ne ho pagato il prezzo: per esempio nel 1972 il governo portoghese mi ha rifiutato il visto per la Guinea Bissau, perché avevo criticato il suo colonialismo. In seguito ho combattuto le infiltrazioni dell’ideologia marxista nella teologia della liberazione e le contiguità con i gruppi rivoluzionari legati ai regimi comunisti. Personalmente ho sempre inteso il giornalismo non solo come professione, ma come la missione della mia vita.

Spesso noi giornalisti ci difendiamo: «Io scrivo quello che vedo, non è colpa mia se è brutto…». Si deve dunque edulcorare la verità?
No, la realtà dei fatti va trasmessa; ma nel giornalismo in genere la 'buona notizia' non è una notizia, mentre i fatti negativi vengono spettacolarizzati. Col suo messaggio Papa Francesco ricorda il ruolo della comunicazione affinché prevalga «uno stile comunicativo… che non sia mai disposto a concedere al male un ruolo da protagonista, ma cerchi di mettere in luce le possibili soluzioni, ispirando un approccio propositivo e responsabile». È realistico ciò, nel giornalismo attuale? Credo che noi cattolici dobbiamo fare di più: se la Chiesa trascura i mass media, la cultura di un popolo scade nel pessimismo, nel laicismo esasperato, nel relativismo, nell’ateismo pratico. 'Chiesa in uscita' significa anche avviare giovani cattolici al giornalismo professionale.

Ma se a costituire una «cattiva notizia» è la Chiesa, come si può comunicare quella «fiducia nel seme del Regno di Dio» che il papa auspica?
Il Giubileo della misericordia mi ha insegnato una cosa: se desidero la conversione completa e in piena trasparenza e umiltà chiedo a Dio la sua grazia, nemmeno il mio peccato mi deve spaventare. D’altronde il papa stesso ha ammesso a un intervistatore: «Io sono un peccatore!», un uomo non del tutto convertito... Anche nelle giovani Chiese ho sempre visto questa realtà: i neofiti hanno un entusiasmo della fede che in Italia ci sogniamo, sono spontaneamente missionari e trasmettono il Vangelo nelle loro famiglie e comunità, tuttavia vivono in una cultura popolare che non ha ancora radici cristiane; quindi si notano contraddizioni, errori, cadute. Ma – come ha detto sempre Francesco fin dai primi giorni del suo pontificato – «tra una Chiesa accidentata che esce per strada e una Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima». Se siamo missionari, dobbiamo avere fiducia.

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