domenica 4 ottobre 2009
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Monsignor Edmond Djitangar, vescovo di Sarh, viene da un Paese, il Ciad, poverissimo e politicamente molto travagliato. Un Paese dove la Chiesa cattolica, seppur minoritaria, è una delle poche voci autorevoli e critiche. Anche perché è molto concretamente vicina alla popolazione e ai suoi bisogni. Monsignor Djitangar, quali aspettative alla vigilia di questo secondo Sinodo per l’Africa? Innanzitutto porteremo il grido del continente. Faremo sentire la nostra voce. Troppo spesso sono altri che parlano per l’Afri­ca. È tempo che la sua Chiesa dica qualcosa dal di dentro, a partire dall’esperienza di vici­nanza con la sua gente. Credo che la Chiesa, più di chiunque altro, possa esprimere al meglio quello che vivono i nostri popo-­li, e parlare a nome dell’Africa, con la speranza che l’Africa che sia finalmente ascoltata. Che cosa chiedete in particolare modo? Di poter esprimere i nostri desideri, il nostro modo di pensare il futuro, di concepire lo svilup­po del continente. Che per noi significa ancora oggi poter vive­re in maniere dignitosa, e non semplicemente sopravvivere. Vogliamo chiedere giustizia per tutti quelli che non possono parlare, mentre altri si arricchisco­no alle loro spalle. Ricchezze non condivise. Un’ingiustizia che va anche contro la cultura africana di solidarietà, condivisione, sostegno ai più deboli... Penso che la Chiesa possa portare il grido e la speranza di questi popoli. Giustizia, pace, riconciliazione sono i temi che guideranno le riflessioni del Sinodo. Ritiene che la scelta di queste proble­matiche sia particolarmente cruciale ed attuale? Certamente. L’esperienza del genocidio del Ruanda ci ha for­temente colpito e traumatizza­to, travolgendo il primo Sinodo. Ancora oggi le Chiese d’Africa devono confrontarsi con guerre, conflitti, profughi, rifugiati... Ci chiediamo come la Chiesa pos­sa portare in questo campo un messaggio credibile e accettato. Certo, non possiamo dare ri­sposte a tutti questi problemi. Ma possiamo garantire una co­stanza di presenza vicino alle vittime e ai più poveri. Dobbia­mo convincere noi stessi che per quanto poco, è un contributo importante e positivo. E che po­tremmo fare ancora di più, spe­cialmente nei settori dell’edu­cazione, della sanità, dell’Aids o dei profughi. E nel campo dell’evangelizza­zione, c’è ancora molto da fa­re? Vediamo le nostre chiese sem­pre piene di persone e di mol­tissimi giovani. Questo ci conforta, ma non ci esime dal continuare un lavoro fonda­mentale, per un’evangelizzazio­ne che sia più consapevole e in profondità. Si dice il Continen­te africano sia quello che cresce di più dal punto di vista nume­rico. Questo però non significa che non ci siano problemi. Lo testimonia il fatto che molti no­stri fedeli passano alle sètte. Vo­gliamo e dobbiamo dunque ri­flettere sul perché la fede cri­stiana non si incarni veramen­te nell’animo africano e cercare di approfondire questa rifles­sione per dare un contributo po­sitivo all’evangelizzazione vera e profonda dell’Africa. Diverse Conferenze episcopali africane chiedono, alla vigilia del Sinodo, che si arrivi a deci­sioni concrete e applicabili, af­finché questa Assemblea possa avere realmente delle ripercus­sioni sulla vita delle Chiese d’A­frica. Qual è il suo punto di vi­sta? Penso che dobbiamo impe­gnarci affinché le risoluzioni del Sinodo possano trovare concre­tezza nella vita delle nostre Chiese. Devono farlo le univer­sità, i seminari e le diverse strut­ture ecclesiali, bisogna tradurre le risoluzioni del Sinodo in o­rientamenti pastorali locali. U­na cosa importate è investire nelle comunicazioni, affinché anche dopo il Sinodo si possa fare uno sforzo di riflessione e coscientizzazione. E ci piace­rebbe che tutti coloro che stan­no cercando di dar voce a que­sto Sinodo, specialmente i me­dia cattolici e le riviste missio­narie, continuino a farlo anche dopo, per favorire un altro sguardo sull’Africa e sulla sua Chiesa.
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