Con 150 milioni di abitanti e 300.000 cattolici (lo 0,3%), il Bangladesh musulmano dimostra bene il paradosso della Chiesa in Asia: minuscola minoranza in un continente che ha circa tre miliardi e mezzo di abitanti (il 62% dell’umanità), ma le comunità cristiane sono in genere visibili e incisive, ammirate o perseguitate, ma non lasciano indifferenti né i governi né i popoli. I valori evangelici penetrano nella mentalità comune, senza per questo convertire le persone a Cristo (ad esempio, il diverso atteggiamento riguardo alla donna). Si dice a volte che è inutile mandare missionari nei paesi islamici, non sono graditi e non hanno niente da fare. In Bangladesh non è così. È uno dei pochi Paesi democratici in Asia e nell’islam, con stampa libera e libertà politica. Le ultime elezioni del 29 dicembre 2008 sono state vinte dalla Awami League, partito laico e moderato, mentre la coalizione con alcuni partiti islamici, tra i quali l’estremista Jamat islam, ha subìto una pesante sconfitta. Il bengalese è tollerante e cordiale, lavoratore che si adatta a tutto, rifiuta la violenza. Questo spiega perché i missionari italiani sono circa 120 in Bangladesh e possono lavorare liberamente. Padre Angelo Canton in Bengala dal 1951 mi dice: «In quasi sessant’anni non ricordo alcun fatto di persecuzione della Chiesa. Non solo, ma il popolo e le autorità ci stimano e ci ascoltano». Come avviene la missione in un Paese islamico? Dopo un secolo e mezzo di Vangelo (i primi missionari del Pime sono presenti dal 1855) la Chiesa è fondata su due comunità: una formata da convertiti bengalesi discendenti dai primi cristiani formati dai portoghesi nei secoli XVI e XVII; l’altra, maggioritaria, sono gli adibasis (aborigeni) animisti che si convertono a Cristo ( garo, santal, oraon). In Bangladesh ci sono sei diocesi tutte con vescovo locale e un centinaio di parrocchie (o distretti missionari) per 300.000 battezzati e una media di 300-500 catecumeni ciascuna. La parrocchia di Pathorgata nel nord-ovest del paese è fra i tribali oraon in ambiente ancora tradizionale, con circa 400-500 catecumeni che danno 100 battesimi di adulti l’anno. Il parroco, padre Emanuele Meli del Pime, mi dice: «Il catecumenato dura dai due ai cinque anni. Io vado adagio nel dare il battesimo, devo convincermi che sono maturi. Oggi il nostro problema è di istruire questi cristiani. All’inizio accolgono la fede con entusiasmo perché capiscono che la loro religione tribale non li sostiene più e vedono la differenza tra paganesimo e cristianesimo. Non si convertono all’islam, perché l’islam è troppo oppressivo della persona. I tribali sono persone libere, il cristianesimo lascia libera la persona». Padre Meli aggiunge: «A livello di villaggio l’islam popolare è tollerante, non c’è fanatismo.Anzi musulmani e indù vengono anche a vedere la chiesa cattolica. Li portiamo in chiesa, spiego cosa facciamo, non ci sono contrasti perché loro non si rivolgono nemmeno ai tribali, che considerano troppo primitivi per l’islam». Pathorgata ha una ventina di villaggi cristiani e molti altri che hanno chiesto l’istruzione cristiana, in un’estensione molto vasta di territorio. Il parroco è aiutato da un giovane sacerdote locale e quattro suore, due visitano i villaggi per istruire le donne, una tiene il dispensario medico e l’altra è a servizio della parrocchia; e due catechisti a tempo pieno, uno visita i villaggi cristiani, l’altro quelli pagani che manifestano desiderio di conoscere Cristo. Poi ci sono i prayer leaders, catechisti stanziali nei villaggi cristiani che guidano la preghiera e si curano la cappella. I tribali sono attratti dalle scuole (lo Stato non riesce a costruirne per tutti); il dispensario medico e l’ospedale cattolico che cura gratis molti poveri; le Credit Union, banche per i poveri che li rendono autosufficienti come famiglie; l’interesse della parrocchia per aiutarli a difendere le loro terre; la Caritas specie per i momenti di emergenza e per i più poveri; e poi la promozione e la difesa delle donne. Il vescovo di Dinajpur Moses Costa, mi dice che oggi il Bangladesh è in grande sviluppo industriale ed è il momento storico di prendere i tribali molti dei quali battono alla porta della Chiesa. «Ma noi vescovi manchiamo di preti, di suore, di mezzi economici. Non siamo ancora autosufficienti. Voi avete fondato la nostra Chiesa, continuate ad aiutarci». Monsignor Moses continua: «I tribali che entrano nel mondo moderno o si fanno cristiani o perdono il loro mondo religioso e diventano praticamente atei». Oggi si verifica un massiccio trasferimento di popolo dalla campagna verso la capitale Dacca, che dal 1980 ad oggi è passata da uno a dodici milioni di abitanti, per il rapidissimo sviluppo delle industrie tessili! Dacca ha in tutto cinque parrocchie, una in città affidata ai missionari del Pime, che hanno fondato due quasi-parrocchie all’estrema periferia: una a sud, Utholi con padre Arturo Speziale, una a nord con padre Gianantonio Bajo a Kewachala e ne sta nascendo una terza con padre Franco Cagnasso a Uttara, città satellite di Dacca con un milione di abitanti senza alcune segno cristiano! Sono stato una giornata con Bajo. Nel 2004 il vescovo l’ha mandato a fondare la parrocchia. Ha comperato i terreni adatti, riunito i cristiani dispersi e costruito le strutture della parrocchia, chiamando anche le Missionarie dell’Immacolata ad aiutarlo. Bajo mi dice: «Sono arrivato appena in tempo. Cinque anni dopo, i prezzi dei terreni sono quadruplicati, perchè sorgono continuamente nuove fabbriche e case popolari. Non ci sarebbe più posto per la Chiesa». Dove cinque anni fa non c’era nulla di cristiano, oggi la parrocchia di Kewachala ha una grande chiesa, scuola elementare e High School, ostelli per studenti e studentesse, centro pastorale e sta nascendo un centro sociale per i lavoratori cristiani della zona, campi da gioco e orto. La casa parrocchiale Bajo non l’ha ancora costruita, per il momento vive in una baracca.