Don Michele Falabretti all'ultimo Convegno nazionale di pastorale giovanile a Carovigno (Brindisi) nel 2015
Si apre l’esperienza di un nuovo convegno nazionale di pastorale giovanile: non è mai un appuntamento banale: si riflette, si condividono i pensieri e si scambiano le esperienze. Come dice qualcuno fra noi, i convegni «si fanno a tavola».
Ci occupiamo di giovani, dunque di libertà che desideriamo interpellate dal Vangelo e nello stesso tempo ancora in costruzione. Lo facciamo in ambiti ecclesiali e sociali molto diversi: l’Italia è lunga; le storie, le tradizioni, il religioso molto diversi fra loro.
Ogni tanto mi chiedo: cosa significa una Chiesa nazionale? Non credo che voglia dire omologazione, né tantomeno rinuncia a cammini storici costruiti nel tempo e con fatica. Ma i meccanismi di fondo (se così si possono chiamare) dell’educazione e della cura per le nuove generazioni, chiedono sempre più dei punti di riferimento. Il contesto che la contemporaneità ci offre è così frammentato e complesso, da risultare talvolta davvero difficile da abitare.
Le chiavi di lettura
Qualcuno, talvolta, chiede quali possano essere le ricadute di un evento nazionale di questo tipo. Lì per lì, nessuna. Almeno credo. È davvero finito il tempo in cui si potevano convocare le persone per "istruirle" sul da farsi a casa. Eppure un convegno può attivare dei processi, può generare speranza (quanto è faticoso e logorante il lavoro educativo!), può consegnare chiavi di lettura che si trasformano in strumenti preziosi per lavorare a casa.
Con il convegno di Bologna, ci spostiamo sui soggetti della vita pastorale. Partiamo con gli educatori, consapevoli che non è un punto di partenza "assoluto": avremmo potuto partire dai giovani e dalle loro diverse età di vita. Ma partiamo da qui perché le due grandi esperienze del 2016 (il Giubileo dei ragazzi e la Gmg di Cracovia), ci hanno rivelato l’importanza di costruire percorsi di accompagnamento. Molti hanno osservato che nella misura in cui i percorsi sono stati preparati e sostenuti, il clima che si è creato, le relazioni tra le persone e soprattutto il ricominciare a settembre dopo l’estate, è stato qualcosa di diverso.
Tra alleanza e formazione
C’è bisogno di persone disponibili e competenti che sappiano tessere relazioni educative buone. C’è bisogno di fare alleanza e di fare squadra: fra educatori di uno stesso contesto, fra educatori che appartengono allo stesso territorio ma anche a diverse agenzie educative; fra educatori, famiglie e comunità.
Queste alleanze sono sane, perché aiutano l’educatore a sentirsi costantemente a servizio della sua Chiesa e delle persone. Ma sono anche difficili, perché chiedono uno stile condiviso e interpellano gli adulti di ogni comunità. Quante volte il lamento sale: «Vorrei fare tante cose, ma non ci sono gli educatori». Le competenze vanno formate: questo richiede tempo e risorse (intelligenza, cuore, conoscenze). Quando riusciremo a mettere il lavoro formativo sullo stesso piano dei servizi religiosi che vengono offerti soprattutto attraverso la celebrazione dei Sacramenti?
«Relazioni di carità»
Già, perché parlando di educatori torna al centro dell’attenzione l’idea che la Chiesa genera alla fede ogni volta che celebra i sacramenti, che annuncia e tesse relazioni di carità. Ma questo non significa – ancora – generare a una «vita di fede». Per la quale c’è bisogno di incrociare seriamente la libertà delle persone che non va immediatamente "guidata", ma va anzitutto interpellata e provocata. Insomma, educatori non si nasce, si diventa.
Per questo ci auguriamo che questo convegno riesca a offrirci un altro punto di appoggio. Non soluzioni immediate, ma il gusto di scoprire quali cose vanno custodite nel cuore e fatte crescere. Soltanto così le nostre competenze educative diventeranno espressione del cuore del Pastore buono.
* responsabile Servizio nazionale per la pastorale giovanile della Cei