Il cardinale Ortega con papa Francesco
«Un onore e un segno di speciale attenzione». Questo rappresenta per la Chiesa e l’intero popolo cubano l’imminente visita di Benedetto XVI. Ne è convinto il cardinale primate Jaime Ortega y Alamino, arcivescovo dell’Avana, che attende con ansia l’arrivo del Pontefice, il prossimo 26 marzo.
Eminenza, com’è nata l’idea di questo viaggio?
Il Papa Benedetto XVI, fin dall’inizio del suo pontificato, ha mostrato il desiderio di accettare l’invito che molto tempestivamente gli avevano rivolto, tanto la Chiesa come il governo, di venirci a visitare a Cuba. In occasione del mio primo viaggio alla Sede Apostolica, Sua Santità mi espresse riserve rispetto all’idea di compiere un tragitto tanto lungo e disse che la sua età era un limite per molti spostamenti. Poi, però, in incontri successivi – allora era già stato in Brasile, Africa e perfino in Australia – , quando gli ricordavo il nostro invito, il Santo Padre mi rispondeva sempre: «Se Dio vuole». Questo fino all’agosto dell’anno scorso. Il Papa aveva nel cuore il desiderio di venire a Cuba, e ci ha incluso nel suo viaggio in America per visitare il Messico.
Che cosa rappresenta questa decisione del Pontefice?
Per la nostra Chiesa e il nostro popolo, essendo Cuba un Paese meno esteso e popolato rispetto ad altri dell’America Latina, è un onore e un segno di speciale attenzione il fatto che il Santo Padre abbia voluto farci visita nell’Anno giubilare mariano – in cui celebriamo i 400 anni del ritrovamento dell’immagine della Vergine della Carità, patrona dell’isola –, e che abbia voluto unirsi ai cubani nel pellegrinaggio al santuario nazionale del Cobre per venerare la Vergine.
Un evento indubbiamente storico...
Il tema della visita papale – «Pellegrino della Carità» – ha un profondo significato per tutti i cubani, cattolici e non. La devozione per Vergine della Carità è diffusa nell’intero Paese, perché è sia un simbolo cattolico sia un segno di identità nazionale.
Sono trascorsi 14 anni dalla visita di Giovanni Paolo II. Che cosa è cambiato a Cuba?
Le due visite avvengono in momenti storici differenti. Ci sono stati cambiamenti all’interno del governo cubano: un nuovo presidente, nuovi ministri e funzionari, delle riforme economiche che prevedono la ripartizione tra i contadini dei terreni agricoli, la creazione di piccole imprese rurali e urbane, di cooperative private e altri mutamenti che favoriscono l’iniziativa privata e il lavoro autonomo, tanto nell’ambito dei servizi come in quello della produzione.
Come valuta queste riforme?
Le riforme economiche sono prospettate come indispensabili e irreversibili. La relativa lentezza con cui vengono portate avanti si deve a resistenze burocratiche e alla necessità di un cambiamento di mentalità, che non è facile da ottenere.
E dal punto di vista religioso, cos’è cambiato rispetto al 1998?
Anche da questo punto di vista c’è una grande differenza, soprattutto sul grado di espressione pubblica che la fede ha raggiunto negli anni, in parte grazie proprio alla visita di Giovanni Paolo II. Il numero di sacerdoti e religiose è cresciuto. È stato costruito un nuovo Seminario nazionale all’Avana, la Chiesa ha varie pubblicazioni diffuse e apprezzate. È cresciuto il numero di aspiranti al sacerdozio, la Chiesa ha un accesso maggiore, sebbene ancora non sistematico, ai mezzi di comunicazione, le espressioni pubbliche di fede sono ormai abituali. Come dimostra il pellegrinaggio nazionale compiuto dall’immagine della Vergine della Carità del Cobre che, per 15 mesi e oltre 30mila chilometri di itinerario, ha catturato l’attenzione di milioni di cubani. La partecipazione è stata straordinaria sia per la quantità sia per il trasporto con cui i fedeli hanno vissuto l’evento. Il tema religioso non è più un tabù o un fatto relegato nella sfera privata. La fede ha una presenza sociale.
Nel 2010 la Chiesa ha svolto un ruolo di mediazione per la liberazione di un numeroso gruppo di detenuti. Lei è stato tra i protagonisti di quell’evento storico...
È stato il governo a chiedere alla Chiesa di mediare sulla questione dei prigionieri cosiddetti politici, quando questa si è rivolta al presidente Raúl Castro per sollecitare un trattamento adeguato nei confronti delle spose e delle madri dei detenuti che manifestavano per i loro parenti. Il presidente ha risposto immediatamente chiedendo alla Chiesa di svolgere un’azione di mediazione con i familiari. Questi reclamavamo non solo migliori condizioni di detenzione ma anche la liberazione dei loro cari. E il governo ha deciso di rilasciarli, progressivamente. Un buon numero è partito per la Spagna mentre 12 sono rimasti a Cuba. La questione, che inizialmente riguardava 53 prigionieri (arrestati nella “Primavera nera” del 2003, ndr), alla fine si è risolta con la scarcerazione di 130 detenuti. In questo modo non sono rimasti dietro le sbarre prigionieri per cause politiche.
Nel 2011 c’è stato un nuovo indulto.
Prima dello scorso Natale, in vista della visita di Benedetto XVI a Cuba e per celebrare l’Anno giubilare, il presidente Raúl Castro ha concesso un indulto a quasi 3mila prigionieri comuni per ragioni umanitarie e su invito della Chiesa cattolica e di altre confessioni cristiane. La Chiesa valuta positivamente il fatto che il governo cubano le abbia chiesto di partecipare a questo processo.
Una partecipazione inedita...
La presenza e la partecipazione sociale della Chiesa locale è qualcosa di totalmente nuovo rispetto alla visita di Giovanni Paolo II. E fa in modo che questa possa prepararsi a ricevere Benedetto XVI con una consapevolezza più profonda di ciò che significa sia la missione del Papa nella Chiesa sia una visita pastorale del Sommo Pontefice.