Il segretario del Pd Nicola Zingaretti
Stretto tra le parole impegnative pronunciate da Matteo Renzi ieri in Aula al Senato e la volontà dei gruppi parlamentari di portare avanti la legislatura, il segretario del Pd Nicola Zingaretti si fa dare il mandato della Direzione dem a «verificare l'esistenza di una maggioranza» con M5s ma pone una serie di condizioni abbastanza nette. Le prime condizioni sono politiche. Ovvero: il governo deve durare, non essere un «governicchio», la «base» deve essere ampia (e quindi includere anche la sinistra parlamentare), l'offerta deve essere «nuova e in discontinuità». Passaggio, questo, delicatissimo, perché sembra essere una chiusura ai due protagonisti pentastellati dell'esecutivo M5s-Lega, ovvero il premier dimissionario Giuseppe Conte e il vicepremier e capo politico Luigi Di Maio. E non è un caso che prima ancora che iniziasse la Direzione, M5s abbia aperto la seconda giornata di crisi con un secco comunicato dei capigruppo con cui si definisce il Movimento un «monolite» compatto «intorno a Luigi Di Maio». Come per dire: il leader non si tocca.
Siamo nella fase dei posizionamenti tattici. La Lega, che pure nel retro del Palazzo continua a non escludere la partecipazione ad una fase di transizione per affrontare la manvora e votare nella prossima primavera, si presenterà domani al Quirinale con un'unica posizione pubblica: sciogliere le Camere e votare subito, come dicono in mattinata i capigruppo del Carroccio al Senato e alla Camera Romeo e Molinari. M5s e Pd, invece, iniziano un negoziato che si annuncia difficile fissando innanzitutto i propri paletti invalicabili. Eventuali ammorbidimenti ci saranno se, nei prossimi giorni, matureranno le condizioni.
La Direzione del Pd, punto nevralgico della mattinata, fila via secondo un canovaccio prevedibile. Zingaretti da giorni ha preso atto della volontà di due leader di peso, Renzi e Franceschini, di provare un dialogo con M5s. Di suo aggiunge la prospettiva e il ragionamento politico: se il Pd deve sobbarcarsi una manovra pesante e poi consegnare il Paese a Salvini in primavera, non ne vale la pena, meglio votare subito, è il succo del suo ragionamento al Parlamentino dem. Mentre sul fronte programmatico Zingaretti chiede a M5s una inversione a U rispetto all'esecutivo con la Lega: europeismo, nessuna riforma che mina la democrazia rappresentativa, ambiente, «cambio nella gestione dei flussi migratori», una ricetta economica «redistributiva». Cinque punti programmatici, in sostanza. Ma prima di ogni cosa, spiega il segretario, occorre intendersi sulla manovra d'autunno, perché lì ci sono le massime insidie.
Zingaretti si muove con i piedi di piombo. Renzi ha giocato sui tempi e nei fatti ha costretto il Pd a guardare negli occhi M5s. Ma ora si tira fuori dal "totonomine" e lascia al segretario la conduzione del negoziato. Questa, per Zingaretti, è un'insidia ulteriore, perché un Renzi che si tiene le mani libere rischia di essere un pericolo. Lo scenario che teme il governatore del Lazio è quello in cui lui si impegola (anche personalmente?) in un governo difficile e l'ex premier dem spara cannonate dal suo scranno di senatore semplice. Timore speculare a quello che serpeggia ai vertici di M5s, dove c'è sostanziale fiducia in Zingaretti ma scarsissima fiducia in Renzi.
La partita a scacchi è appena iniziata. Molto significativa, alla Direzione dem, la presenza del presidente dell'Europarlamento David Sassoli, protagonista nella trattativa che ha portato Ursula von der Leyer al vertice della Commissione Ue, trattativa che proprio nel rush finale ha coinvolto anche M5s. Potrebbe essere lui uno dei riferimenti di questa fase caotica.
Alla fine l'ordine del giorno per verificare i margini per un «esecutivo di svolta», presentato dal presidente dell'Assemblea dem Paolo Gentiloni e dai capigruppo Marcucci e Delrio, viene approvato all'unanimità e per acclamazione. Unanimità che potrebbe però essere scalfita quando si inizierà a parlare di nomi. I veti di Zingaretti su Conte e Di Maio, ad esempio, non sono condivisi da Renzi. Lo stesso Zingaretti preferirebbe che il Pd si ritenesse tutto impegnato con le varie correnti anche per i dicasteri. I pontieri continuano a lavorare. Attivissimi in questa fase, oltre ai capigruppo di Pd e M5s, Dario Franceschini per i dem e Vincenzo Spadafora - vicinissimo a Di Maio - per M5s.
Il Movimento raccoglie il primo segnale ufficiale di Zingaretti ma non si sbilancia. La parola ufficiale del Movimento arriverà solo domani dopo l'audizione pomeridiana - l'ultima del calendario - al Colle. Con la nota mattutina dei capigruppo M5s fa intendere che Di Maio deve essere necessariamente della partita. Non pone la stessa condizione, M5s, sul premier dimissionario Giuseppe Conte. La Lega non può che assistere e sperare in due scenari alternativi: il voto anticipato a ottobre o un rientro "light" in un governo di transizione per votare in primavera.
I tempi sono stretti per tutti. Mattarella ha intenzione di accelerare i tempi e di verificare con velocità i reali margini di un'intesa tra M5s e Pd. Se non si verificassero le condizioni, al capo dello Stato non resterebbero che due strade: un ultimo appello alle Camere per affrontare con spirito unitario la legge di bilancio e poi aprire la sfida elettorale; oppure sciogliere le Camere (con un governo elettorale di garanzia) e mandare il Paese al voto a fine ottobre.