Le operazioni di chiusura del centro di accoglienza di Cona, Venezia (Ansa)
Cona chiude. Cala il sipario sul centro di accoglienza straordinaria più grande del Veneto. La circolare della prefettura di Venezia ha raggiunto le autorità locali in tarda mattinata, quando le operazioni di trasferimento degli ultimi 30 richiedenti asilo presenti nella ex base militare – ora sparsi in tutta la regione, ma anche a Campobasso e Matera – si erano completate già da un paio d’ore.
La parola fine arriva a tre anni e mezzo dall’arrivo dei primi migranti. Quaranta mesi in cui l’hub è salito ripetutamente agli onori delle cronache e l’episodio dell’incendio di settembre che ha messo fuori uso uno dei tendoni dormitorio da cento posti, in cui sono andati a fuoco anche documenti e richieste di asilo, è solo l’ultimo di una lunga serie. Impossibile contare le risse, compresa quella più grave scoppiata dopo la morte della giovane ivoriana Sandrine Bakayoko, 25 anni, il 2 gennaio 2017. Dopo quella morte controversa, gli ospiti del centro si rivoltarono, bloccando 25 operatori nella struttura.
I primi arrivi nella frazione di Conetta risalgono al 25 luglio 2015: 50 migranti, tutti ospitati negli edifici in muratura della ex base dell’esercito. Da allora migranti e residenti hanno visto i numeri moltiplicarsi fino al picco di metà 2017, quando i giovani sbarcati sulle coste siciliane e trasportati qui – per lo più africani sub sahariani – erano 1.500. In quel momento il Cas contava una popolazione dieci volte superiore rispetto agli abitanti. Poi, complice anche il calo degli sbarchi, le presenze erano andate scemando: a inizio 2018 i richie- denti protezione internazionale erano poco più di 700 e in estate 530. Eric Konan, anche lui ivoriano 22enne, oggi risiede a Portogruaro, gli è stata riconosciuta la protezione umanitaria per due anni e sta svolgendo un tirocinio in un’azienda metalmeccanica, ma non può dimenticare i dieci mesi trascorsi a Cona. Il Cas è la prima cosa dell’Italia che ha visto dopo la traversata del Mediterraneo, lo sbarco in Sicilia e due giorni di pullman per risalire la Penisola: «Com’è possibile che la gente viva qui?», è stato il suo primo pensiero. «Ho visto molti ragazzi uscire di testa in quei mesi. Perché? Perché Cona era come una prigione. Eravamo sempre lì dentro a mangiare riso e pomodori e quando chiedevamo agli operatori di poter fare qualcosa, ci dicevano che non c’era nulla da fare». E poi i tendoni. «Lì dentro non si poteva mai dormire, la gente andava e veniva, c’erano rumori a tutte le ore, succedeva di tutto ogni giorno».
A complicare le cose, sono arrivate poi le indagini a carico di tre dirigenti della cooperativa Edeco, che ha gestito la base in tutto questo tempo oltre a quello padovano di San Siro di Bagnoli. Il sospetto degli inquirenti è che operasse un vero e proprio “sistema” messo in piedi per pilotare gli appalti, alimentato dai vertici delle prefetture che favorivano Edeco. A far luce sul malaffare sarà il processo penale che si aprirà nei primi mesi del 2019.
Alberto Panfilio, primo cittadino di Cona, ieri non era presente alle operazioni di chiusura del centro. Problemi di salute lo hanno costretto in casa nel giorno in cui finiva la sua battaglia lunga tre anni e mezzo: «Una battaglia combattuta non certo contro le persone che abbiamo visto trasportate qui come pacchi e costrette a vivere senza dignità – puntualizza – . Cona è il simbolo della pessima qualitò della nostra classe dirigente, dalla politica alle prefetture: nessuna competenza, zero buon senso, niente piano B quando gli hub hanno dimostrato di non funzionare. Prendo atto del ravvedimento operoso del ministro Salvini che dopo aver avversato l’accoglienza diffusa ora la pratica. Ma rimare la ferita: Cona è stata trattata da tutti i partiti di maggioranza e opposizione come la cenerentola dei comuni da sacrificare sull’altare del consenso. Il principio di sussidiarietà è completamente saltato».
La mente di padre Lorenzo Snider della Società missioni africane, da due anni assistente dei giovani dei due hub, è solo per i suoi ragazzi: «Molti di loro oggi sono altrove, in situazioni differenti. Ma molti, sono per strada dopo il decreto sicurezza. Dobbiamo occuparci di quelli più deboli, più fragili, altrimenti per loro siamo di fronte a una condanna a morte». Per questo il gruppo Rinascita, con cui ogni domenica porta nelle parrocchie alcuni giovani a cantare e testimoniare, non si ferma: la possibilità di una nuova vita passa anche da qui.