martedì 28 novembre 2023
In tre anni, oltre 21mila dottori sono andati all’estero: in Europa piacciono Francia e Regno Unito, mentre Qatar e Arabia Saudita attirano i più giovani con meno tasse e stipendi record
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Lavorando nei piccoli ambulatori francesi, Rosaria Innarella ha incontrato medici italiani d’ogni genere: dallo specializzando che sogna una carriera brillante al chirurgo decano alla ricerca di orari e stipendi più dignitosi. Lei stessa, dopo dieci anni di servizio nel Sistema sanitario nazionale, lavora dal 2020 come gastroenterologa nella piccola Châteauroux. «Sono andata via dall’Italia a 52 anni – confessa –, molto delusa dalla mia esperienza. Dal 2003 ho visto peggiorare di gran lunga le condizioni lavorative: a Torino sono finita a gestire reperibilità in due presìdi a 40 chilometri di distanza, dovendo scegliere al telefono dove andare con più urgenza. Andarmene è stata una sconfitta, ma non c’era più rispetto per il mio lavoro». Come la dottoressa Innarella, decine di migliaia di medici negli ultimi anni sono fuggiti dal Paese innescando una vera e propria emorragia. Aggravata dalla pandemia: oltre 21mila sono i camici bianchi emigrati dal 2019 al 2021 (dati Ocse) che, sommati ai 17mila infermieri, formano una platea di quasi 40mila professionisti scappati all’estero in tre anni. Con danni ingenti per le casse italiane: se su ogni laurea in medicina pesano più di 40mila euro di spesa, sul bisturi di ogni medico specializzato ne gravano oltre 150mila. Oggi Arabia Saudita e Qatar attirano i più giovani con detassazione e stipendi da record, ma sono ancora Regno Unito e Francia le méte preferite dai dottori. Perché, con addirittura il 40% dei medici che valuta l’emigrazione (secondo l’indagine Fnomceo 2023) il trasferimento non è in primis una questione di soldi.

«Ho deciso di andare in Svizzera perché lì la mia specializzazione è ospedaliera – spiega il tossicologo Alessandro Casarella, fresco di studi all’Università di Catanzaro -. Mi posso dedicare ai pazienti e non sono costretto a occuparmi solo di tossicodipendenze come in Italia». Nella sua branca, il sistema nazionale mette pochissimi posti a disposizione negli ospedali indirizzando molti, per non rinunciare al contatto diretto con i pazienti, ai presidi esteri. Ma il malessere è diffuso in molti settori: «Da medico di base in Francia non faccio niente senza il paziente davanti – spiega Francesca Paolini (il nome è di fantasia ma il disagio è reale) –. Il nostro lavoro in Italia è pieno di burocrazia e abbandonato dalle istituzioni: è denigrante per un medico cliccare per due ore al giorno “invio ricetta”». Così, nell’arco di pochi anni, i giovani emigrati all’estero accumulano esperienza e chance di carriera. «Tanti miei colleghi sono già primari del loro reparto a 38 anni – racconta LucianoMazzeo Cicchetti, chirurgo generale e plastico a Bruxelles –, in Italia è impensabile. La prospettiva di carriera qua in Belgio è enorme».

Fuggito già nel 2010 dalla sua Potenza verso il nord Europa, dopo la specializzazione e alcuni anni di lavoro, Mazzeo Cicchetti ha tentato più volte il ritorno in Italia. Sempre con esiti infelici: «Mi sono presentato al San Raffaele, a Vicenza e a Santarcangelo di Romagna – spiega – ma ogni volta sono rimasto per una sola settimana, quella precedente alla firma del contratto, perché ero visto sempre come l’ultimo arrivato, quando io operavo già cento pazienti in un anno». Ma guai a parlare di arrivismo: a ostacolare il rientro dei camici bianchi spesso sono pesanti responsabilità e un’asfissiante burocrazia. «In Belgio – continua Mazzeo Cicchetti – abbiamo meno esigenza di far firmare i consensi informati, ad esempio. Se il paziente torna da te, è perché ha capito cosa vuole fare e ha deciso di operarsi. In Italia, invece, vige l’obbligo di firmare fogli che il paziente non legge affatto». Un’esperienza condivisa anche dagli italiani in Francia: «Il rispetto per i medici qua è alto – spiega la dottoressa Innarella -. La responsabilità professionale è diversa, c’è molta più difesa del personale sanitario da parte della giustizia e i pazienti, in generale, sono meno aggressivi che in Italia». Una musica che non cambia neppure oltremanica: «La responsabilità in Irlanda è molto più condivisa all’interno della struttura – sostiene Alessandro Deni, microbiologo clinico emigrato a Limerick -. In Italia ci vanno di mezzo entità senza volto e a rimetterci sono le ultime ruote del carro». Eppure, per molti, a incentivare il trasferimento all’estero è anche una maggiore qualità della formazione professionale, fin dai primi anni della specializzazione. Con buona pace della tanto discussa “fuga dei cervelli”: «In Belgio uno specializzando all’ultimo anno – spiega l’audiologo e foniatra Daniele De Siati, trasferito a Bruxelles nel 2011 – è già in grado di gestire in maniera autonoma le attività cliniche e chirurgiche. In Italia non è così».

E, nonostante la gran richiesta di camici bianchi formati nelle scuole italiane, tanti considerano l’esperienza maturata all’estero senza prezzo: «A livello formativo, lavorare in Irlanda è stata la cosa migliore che potesse succedere alla mia carriera – ammette Alessandro Deni, trasferitosi nel giugno scorso –. Cambiare Paese è un passo complicato, ma qua facciamo cose diverse: dalla diagnostica sconfiniamo nella terapia e persino nella gestione dei focolai ospedalieri». In altre parole, nei nosocomi stranieri i medici italiani si sentono più autonomi, più versatili e più vicini ai pazienti. Eppure – inutile dirlo – la goccia che fa traboccare il vaso nella maggior parte dei casi resta il trattamento economico. «In Austria e in Germania la paga è più alta – spiega il chirurgo generale Luigi Epifani –. Ho iniziato prendendo 3mila euro netti e sono passato a 4mila considerando straordinari e reperibilità. La retribuzione, a differenza dell’Italia, negli ultimi anni si è adeguata all’aumento del costo della vita». E, a queste condizioni, le offerte italiane non sono quasi mai competitive: «Quando mi presentai al San Raffaele – conclude il dottor Mazzeo Cicchetti – mi proposero un contratto da 1.900 euro, mentre in Belgio ne guadagnavo 3.500 al mese. Provai a chiedere se potessi “fare il privato”, ma il primario mi rispose che lo avrebbe fatto solo lui».

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