giovedì 11 febbraio 2016
Gemelli nati in Ucraina riconosciuti figli dei coniugi italiani «committenti». Il tribunale toscano si pone nel solco di altri, ignorando però la sconfessione di questa linea giurisprudenziale sancita dalla Cassazione nel 2014.
Firenze: utero in affitto, nuovo sì dei giudici
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La notizia si è diffusa ieri, e ancora una volta ha confermato quanto Avvenire sta fotografando da tempo: in Italia la maternità surrogata è sì vietata dalla legge 40, ma basta darle corso in un paese estero che la prevede per veder riconosciuti i suoi effetti anche in patria. Stavolta i riflettori si sono accesi su una coppia della Piana lucchese. Desideravano un figlio a tutti i costi, ne hanno avuti due: li ha partoriti una madre surrogata reperita da una clinica di Kiev, frequentatissima meta ucraina del turismo procreativo italiano.  Frequentatissima. Sì, se non altro per ragione di costi: lì il bimbo viene rilasciato dietro un corrispettivo di circa 30mila euro. Molto meno che negli Stati Uniti, dove i prezzi oltrepassano anche i 100mila. Ebbene, l’uomo della coppia ha messo il seme, la donna nulla (a eccezione dei soldi). Gli ovociti sono arrivati da una 'donatrice' (le virgolette sono d’obbligo, perché il 'servizio' - rischioso e pericoloso - è disponibile solo se remunerato), l’utero da un’altra ragazza ancora. Nascono due gemelli, e per la legge ucraina sono figli della coppia committente. Ma la cancelleria consolare dell’ambasciata italiana a Kiev non è nuova a queste situazioni: per ogni nascita all’estero, sono loro a dover trasmettere il certificato in patria. E, quando sospettano che il bimbo sia nato da un utero in affitto, devono comunicare la notizia di reato alla competente Procura della Repubblica. Così è avvenuto anche nel caso fiorentino, subito gemmato in due diversi procedimenti. Uno, ancora aperto, vede i due 'committenti' accusati di aver alterato lo stato civile del minore (articolo 567 del codice penale). Vale a dire di aver falsato nell’atto di nascita il nome dei genitori. L’altro, deciso nei giorni scorsi in primo grado dal tribunale minorenni di Firenze, si dipanava sull’adottabilità o meno del minore. In altri termini, doveva risponde a questa domanda: quei bimbi sono davvero figli dei due 'committenti', dunque devono rimanere con loro, oppure i loro veri genitori sono altri (e ignoti), dunque è necessario che siano posti in adozione? Pur nella sofferenza di un caso umanamente e giuridicamente delicato, la risposta normativa sarebbe chiarissima: l’articolo 269 del codice civile stabilisce infatti a chiare lettere che madre è colei che partorisce. Ma i giudici fiorentini questa norma non la considerano. Piuttosto, «in adesione alle evoluzioni giurisprudenziali europee, figlie di una visione pluralista della famiglia - ha dichiarato a Il Tirreno la presidente della magistratura minorile, Laura Laera - l’uomo risulta padre biologico dei minori, e la moglie va considerata madre sociale degli stessi». Questi concetti non sono nuovi. Li aveva coniati il tribunale di Milano - poi seguito da altri organi di primo grado - a far tempo dal 2013. Ma con sentenza del 26 settembre 2014 erano stati pienamente sconfessati dalla Cassazione: il massimo organo giurisdizionale italiano, a cui principi dovrebbero uniformarsi tutte le corti locali del Paese.  Il tribunale minorenni di Firenze sostiene di aver elevato a parametro della sua decisione il miglior interesse dei minori. E cioè quello a rimanere con chi li aveva comprati, perché ritenute anche a livello psicologico persone capaci di amarli. L’affermazione si pone però in contrasto con gli Ermellini, che nella pronuncia del 2014 già avevano ritenuto inammissibile un ragionamento del tutto simile. Il vero bene dei figli, così è scritto, si realizza «attribuendo la maternità a colei che partorisce e affidando all’istituto dell’adozione , realizzata con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale, piuttosto che al semplice accordo delle parti, la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico». Su tale punto, aveva concluso la Suprema corte, non esiste «alcuna discrezionalità da esercitare in relazione al caso concreto ».
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