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Ogni anno il Sistema sanitario nazionale spende 12,2 miliardi di euro in stipendi del personale medico (il 9% della spesa complessiva del personale, che per il 2022 è fissata nel Def in 131 miliardi) e 9,6 miliardi per gli infermieri. Neanche un centesimo arriverà dal Pnrr. Eppure il gruzzolo assegnato alla Sanità dal Recovery è tutt’altro che esiguo: 15,63 miliardi, sette dei quali pioveranno sui territori mentre il resto verrà speso per l’innovazione del Ssn. Entro il 2026, finanzieranno investimenti, cioè nuovi ospedali, case della comunità, centri operativi territoriali… aumentando, ça va sans dire, il fabbisogno di personale medico e infermieristico.
Il timore dei sanitari è che lo Stato pensi solo a edificare e questa paura l’Anaao, il sindacato dei medici e dei dirigenti sanitari, l’ha già messa nero su bianco. «Il rapporto spesa sanitaria/Pil scenderà sino 6,2% nel 2025, meno di quello che era prima della pandemia». Aggiungendo che l’incremento dei pensionamenti e delle dimissioni volontarie «è tale da mettere seriamente in pericolo la tenuta del Ssn, visto che di fronte ad uscite di circa 7mila medici specialisti ogni anno, l’attuale capacità formativa della Università è pari a circa 6mila neo-specialisti, di cui solo il 65% accetterebbe un contratto di lavoro con il Ssn». Insomma, il Pnrr ci darà nuovi ospedali ma potrebbero mancare i soldi e il personale per farli funzionare. L’emergenza investe, naturalmente, anche i vecchi ospedali – prova ne sia l’allarme ortopedici lanciato da un altro sindacato di medici e dirigenti, la Cimo-Fesmed –, i medici di famiglia – il 38% saluterà il sistema sanitario entro il 2025 – e, ovviamente, gli infermieri. Il primo approccio di quest’ultima categoria al Pnrr è stato entusiastico.
«La Missione 6 del Recovery Plan inviato a Bruxelles piace agli infermieri e non solo perché raddoppia la disponibilità di risorse per l’assistenza sul territorio, ma perché parla la loro lingua: reti di prossimità, Casa della Comunità, domicilio, Ospedali di comunità...» scriveva solo un anno fa la Fnopi, il sindacato degli infermieri. Ottimismo rafforzato dal DM 71, che detta gli standard per l’assistenza territoriale. «Gli infermieri saranno decisivi per la presa in carico dei pazienti nelle fasi post ricovero ospedaliero o in tutti quei casi dove c’è bisogno di una particolare assistenza vicino al domicilio del paziente » annuncia la Fnopi, che esalta il «forte ruolo degli in- fermieri di famiglia».
Anche la Fnopi però ha fatto i conti: già oggi mancano 63mila infermieri e se il Pnrr manterrà le sue promesse il fabbisogno supererà quota 100mila. Parlando del futuro dell’assistenza territoriale, il direttore generale dell’Agenas Domenico Mantoan ha dichiarato ad Avvenire che «nella Legge di Bilancio per il 2022 il Parlamento si è operato per ampliare la capacità di spesa per il personale che sarà occupato all’interno delle strutture dell’assistenza territoriale previste nel Pnrr» e ha ricordato che sarà approvato un «documento di riforma con cui si definiscono i modelli e gli standard per lo sviluppo dell’Assistenza territoriale, che individuano i fabbisogni minimi di personale introducendo in modo strutturale nel servizio sanitario anche 'nuove' figure professionali (infermiere di famiglia e di comunità)». Tuttavia, l’ampliamento del-l’offerta sanitaria non solleva solo il problema della spesa corrente. Anche ad aver i soldi per pagarli, mancano professionisti. L’Anaao-Assomed, in un rapporto del 20 aprile scorso, parlava di «grande fuga dei medici dal Ssn».
Chi se ne va, chi resta nel limbo: è la paralisi
63mila
La carenza odierna di infermieri, secondo il sindacato Fnopi, destinata a salire a quota 100mila nei prossimi anni
72%
La quota di medici che vorrebbe lasciare gli ospedali, secondo un’indagine, a causa di basse aspettative di carriera e scarse retribuzioni
15,6
I miliardi attesi dalla sanità col Pnrr: 7 miliardi andranno ai territori, il resto verrà speso per l’innovazione del Sistema sanitario nazionale
7mila
Le uscite annuali di medici specialisti dal Ssn, a fronte di una capacità formativa delle Università di 6mila aspiranti medici
65%
I giovani studenti di Medicina che si dicono pronti di accettare un possibile contratto di lavoro con il Sistema sanitario nazionale
50mila
La soglia di abitanti necessaria per poter costituire sul territorio una Casa della comunità, con medici e pediatri di libera scelta
Descrivendo di fatto un’atmosfera da Great Resignation, con un aumento generalizzato delle dimissioni. Colpa della pandemia «che ha nettamente peggiorato le condizioni di lavoro negli ospedali». La tendenza, avviata nell’annus horribilis del Covid-19, non si è arrestata nel 2021: + 39% di medici ospedalieri che decidono di uscire dal Ssn per lavorare nella sanità privata. Cercano orari più flessibili, maggiore autonomia professionale e minore burocrazia. Fuggono dal burnout . Ed inseguono un salario migliore: il blocco contrattuale ultradecennale rende competitive le buste paga dell’Est europeo; quello del turnover produce massacranti turni di servizio; le possibilità di carriera sono ridotte, tant’è vero che in dieci anni i direttori di struttura complessa sono diminuiti del 31,5% e i responsabili di struttura semplice del 44%. In altre, parole, il privato attrae maggiormente e ancor di più l’ambulatorio, come dimostra il fatto che i neolaureati ambiscono a specializzazioni spendibili proprio in quegli ambiti.
Secondo un’indagine Cimo-Fesmed, i giovani hanno visto crollare in cinque anni le aspettative di carriera e retribuzione e il 72% dei medici vorrebbe lasciare gli ospedali. Il presidente di Cimo-Fesmed, Guido Quici, tuona: «Dopo due anni di emergenza i medici ospedalieri meritano riconoscimenti chiari e concreti. Subito nuovo contratto di lavoro della dirigenza e riforma della rete ospedaliera ». La riforma su cui si accumulano le maggiori tensioni in queste ore è quella che dovrebbe trasformare i medici di famiglia, centrali nel ridisegno della sanità territoriale, in dipendenti delle Regioni. Ipotesi accarezzata da queste ultime e avversata dai medici, che oggi sono lavoratori parasubordinati e convenzionati e godono di una autonomia gestionale e organizzativa molto ampia. Alla base di questa riforma c’è un ragionamento finanziario: regionalizzandoli, si potrebbero ridurre i professionisti di 30mila unità.