Pensare di regolare i rapporti tra persone dello stesso sesso imponendo per legge uno 'status' proprio del matrimonio rischia di sfociare nell’illegittimità costituzionale. Lo sottolinea Emanuele Bilotti, professore di diritto della famiglia all’Università Europea di Roma.
Professore, stralciata la parte relativa alle adozioni (art. 3, comma 4 e art. 5) – se davvero sarà così – il ddl Cirinnà continua a presentare non pochi aspetti problematici, primo tra tutto un effetto fotocopia con la legge sul matrimonio. Perché questo parallelismo è inaccettabile? È vero. La disciplina del rapporto tra le parti dell’unione civile riproduce esattamente quella del rapporto coniugale. Il primo comma dell’art. 3 del disegno di legge in questione riproduce testualmente l’art. 143 del codice civile rubricato 'diritti e doveri reciproci dei coniugi'. Il secondo comma dello stesso art. 3 riproduce invece l’art. 144 rubricato 'indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia'. Talora si è adottato l’accorgimento di sostituire espressioni come 'residenza della famiglia' o 'bisogni della famiglia' con 'residenza comune' e 'bisogni comuni', ma si tratta evidentemente di varianti terminologiche che non incidono sulla sostanza del contenuto normativo.
Questi parallelismi tra unioni civili e matrimonio aprono la strada al rischio della illegittimità costituzionale? Se fosse davvero questo il testo definitivo, il dubbio è più che fondato. Anche il professor Sabino Cassese, del resto, lo ha spiegato con chiarezza proprio ad
Avvenire. Com’è noto, infatti, nella sentenza 138/2010 la Corte costituzionale ha detto che «le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio ».
È davvero indispensabile che nel comma 4 dell’articolo 3 si sia ribadito che tutte le disposizione dove ricorre la parola 'coniuge' si applicano anche alle 'persone dello stesso sesso'? La Corte costituzionale, come detto, ha messo bene in chiaro che il legislatore ordinario, nel riconoscere anche le coppie formate da due persone dello stesso sesso, non può assimilarne la disciplina a quella del rapporto coniugale. Ci si deve chiedere allora come sia possibile giungere a un riconoscimento di certi rapporti di coppia che sia davvero rispettoso della legalità costituzionale. Credo che l’esigenza evidenziata dalla Corte costituzionale possa essere soddisfatta configurando il rapporto tra le due parti dell’unione civile in una forma non istituzionale, e cioè non come rapporto di status. Il rapporto coniugale si caratterizza invece per essere rapporto di status. Dovrebbe trattarsi, in altri termini, di un riconoscimento di diritti che risponda all’esigenza di tutelare gli affidamenti reciproci che nascono dalla vita in comune, e dunque di un riconoscimento che consegua al semplice fatto dell’assistenza morale e materiale che due persone si prestano reciprocamente, senza dare rilevanza al dato dell’esercizio della sessualità.
Nell’articolo 6, sullo scioglimento delle unioni tra persone dello stesso sesso, si richiamano le norme sul divorzio. Non è un po’ contraddittorio che leggi pensate per sciogliere un vincolo matrimoniale si vogliano estendere a una dichiarazione davanti all’ufficiale di stato civile? In effetti, proprio la disciplina del divorzio contribuisce a mettere bene in chiaro cosa sia un rapporto di status. Il matrimonio non è un semplice contratto che le parti possono sciogliere per mutuo dissenso. Il divorzio, del resto, non è certo un semplice accordo dei coniugi avente a oggetto lo scioglimento del rapporto coniugale. Una delle caratteristiche dello status, e quindi anche dello status coniugale, è dunque quella di essere sottratto alla disponibilità dei suoi titolari. Il fatto che anche l’unione civile tra persone dello stesso sesso possa sciogliersi solo attraverso il divorzio, attesta allora chiaramente che il legislatore intende configurare anche un simile rapporto come uno status, proprio come il rapporto coniugale. Ora, però, quando la Corte costituzionale pone l’esigenza di una differenziazione tra il matrimonio e il riconoscimento dei rapporti di coppia tra persone dello stesso sesso, in realtà esige proprio che quest’ultimo riconoscimento non avvenga nella forma dello status. Qui, con ogni evidenza, si ha a che fare con aggregazioni puramente volontarie. Ed è bene, nell’interesse degli stessi protagonisti di tali unioni, che rimangano tali. Ciò non esclude, beninteso, che, anche al di là delle determinazioni autonome delle parti, il legislatore debba intervenire per tutelare gli affidamenti reciproci che si determinano in certi contesti di vita in comune.