Un minorenne somalo in viaggio verso il nord Europa, senza vestiti e senza cibo, in stazione. Un passante che lo nota, gli offre una felpa, lo ospita. La storia commovente di un incontro che ha cambiato per sempre due vite: «Da papà a papà, mi permetto di chiedere al ministro dell’Interno di invitare mio “figlio” mezz’ora al Viminale. E ascoltarlo» Marco Morosini insieme a Shaakir
Vorrei offrire una mia modesta esperienza per aiutare a capire, al di là della cronaca, la posta in gioco con i salvataggi dei naufraghi. Ho navigato per 50mila miglia, come marinaio o come capitano di piccole imbarcazioni. Ho salvato e sono stato salvato. Ho imparato e insegnato a farlo, in scuole di navigazione. Da poco ho imparato a salvare naufraghi anche a terra. Su un treno per il nord, il 20 aprile 2015 incontro Shaakir, un minorenne somalo che mi ha raccontato l’Odissea. Per un pelo è sfuggito all'arruolamento forzato nelle milizie Al Shabab, che uccisero sua sorella perché non rivelava il suo nascondiglio.
Poi: traversata di mezza Africa a piedi e in veicoli di fortuna, Somalia, Sudan, Libia. Campo di concentramento disumano in Libia. In canotto con decine di disperati, quasi senza viveri né acqua. Avaria. Salvataggio. Sicilia. Treno. Giù dal treno, Shaakir ha freddo e fame. Lo vesto con la mia felpa, lo nutro. Non avevo figli. Ora ne ho uno. In tre anni di scuola ha imparato la lingua del mio nuovo Paese. Ora qualche volta corregge la mia grammatica. Gli ho dato reti, non pesci. Un laptop e uno smartphone, identici ai miei, compatibili. Quando aveva un problema tecnico chiedeva a me. Ora chiedo io a lui.
Pagherà la mia pensione, senza che né io né lui lo sappiamo. Gli ho spiegato come funziona. Gli offro l’abbonamento ai treni, al telefono e a internet. Niente pesci. Reti! Anche quelle digitali. La mobilità è tutto. Mobilità di dati e contenuti, nella fibra ottica. Mobilità di idee e passioni, nella fibra umana. Mobilità di persone, nella fibra sociale di un Paese e di un Pianeta, al di là di mari e continenti. Shaakir è accolto dalla polizia di frontiera con un biglietto di treno per proseguire e con una lettera di presentazione a un centro d’accoglienza. Riceve un documento, un letto, cibo e una paghetta mensile. L’avvocata di una Ong di giuristi volontari lo rappresenta. Come da legge, in meno di tre mesi la sua richiesta di asilo è esaminata.
È accolto. Da allora i contribuenti gli pagano: alloggio con altri in un appartamento, in provincia, tre anni di scuola a tempo pieno di lingua, cultura, canto e disegno, conclusa con ottimi voti. Ora è al secondo anno di scuola-lavoro professionale triennale come apprendista meccanico di automobili, modestamente remunerato. Manda un terzo dello stipendio alla nonna, sola in Somalia. Dopo, vuole studiare mecatronica dei veicoli. Ce la farà. Il suo stipendio sarà quintuplicato. Comincerà a pagare le nostre pensioni. Che ispirazioni trarre da questa storia?
Ecco le mie. Per esperienza diretta e riferita, ho imparato che molti di coloro che dal niente sono stati aiutati per dono a rialzarsi, hanno una marcia in più di coloro che hanno avuto sempre tutto, come noi. E spesso ci rendono molto più di quanto hanno ricevuto. L’accoglienza costruttiva non è solo carità. È investimento, confermano gli economisti. Quando bene investite, le risorse per l’accoglienza hanno reso prosperi molti Paesi e molte città. Il popolo che mi ha accolto da migrante è stato per metà costruito da altri migranti italiani. Senza di loro, non sarebbe prospero come oggi.
Le mie due città si contendono il primo e il secondo posto nel mondo per qualità della vita. Un terzo dei loro abitanti sono stranieri. Il preambolo della Costituzione del mio nuovo Paese dice: «La forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri». Ho imparato che è l’applicazione di questo principio ad aver fatto diventare questo popolo uno dei più prosperi. La mia esperienza con naufraghi di terra e di mare mi ha insegnato una cosa. Oggi il coraggio richiesto a tutti noi, ai servitori dello Stato, e specialmente a chi serve il Paese in armi, è anche quello per salvare vite straniere, non solo per toglierle.
Oggi, ma non solo oggi. «Sulle spalle prima di tutto ho duemila anni di civiltà» fu la frase di un nobile salvatore di naufraghi, detta nel 1940, a suo rischio, al suo superiore, l’ammiraglio tedesco Karl Dönitz, che gli rimproverava il suo comportamento. Naufraghi nemici, si badi, che “il corsaro gentiluomo”, il pluridecorato Capitano Salvatore Todaro (messinese, 1908-1942) salvò in Atlantico, inventando il concetto umanitario di pre-naufrago. Prima d’affondare col cannone del suo “regio sommergibile” Cappellini il piroscafo belga Kalò, che peraltro gli aveva appena sparato maldestramente con il cannoncino di bordo, ne fece scendere l’equipaggio su una scialuppa. Dov’è rimasto oggi il nostro coraggio di eroi Italiani?
Noi, capaci di salvare nemici che ci avevano sparato cannonate, non abbiamo oggi il coraggio di salvare dal mare esseri umani disarmati, inermi e disperati? Credo che anche Shaakir possa contribuire, con le sue sole parole, a indurre a salvare tanti altri Shaakir. Per questo mi permetto di chiedere al ministro Salvini, da papà a papà, di invitare per mezz’ora Shaakir al Viminale e di ascoltare le sue due storie. Quella di prima. E quella di adesso.