venerdì 7 luglio 2023
Dopo il discorso incendiario del presidente Saied, nelle strade, si respira grande tensione e la sensazione che lo stato più settentrionale dell'Africa non sia più un Paese sicuro.
Un ragazzo dell'Angola, fuori dalla stazione di Sfax, in attesa di andare a Tunisi

Un ragazzo dell'Angola, fuori dalla stazione di Sfax, in attesa di andare a Tunisi - Ghirardelli

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Sfax ( Tunisia) Davvero questo non sembra un Paese sicuro. Di certo non lo è stato nell'ultima settimana, non qui a Sfax, per le migliaia di migranti subsahariani che ci vivono, lavorando nel settore informale o aspettando il momento giusto per occupare il proprio posto su imbarcazioni malandate, stretti tra decine di corpi e di speranze in arrivo da mezza Africa, rischiando tutto pur di arrivare di là. Messi da parte al momento i piani di prendere il mare, quelle di non dare nell'occhio o di andarsene da Sfax via terra sono ora le priorità. Lontano dai raid delle bande locali, dagli arresti e dalle deportazioni della polizia.

Mercoledì notte, seduti nell’androne della stazione ferroviaria di Sfax, erano rimasti in una trentina. Soprattutto ragazzi, ma anche alcune donne e alcuni bambini, in arrivo da Guinea, Sierra Leone, Sudan, Angola, gli ultimi ad aspettare il treno delle tre o quello delle cinque del mattino, per seguire le centinaia di migranti che nell’arco della giornata si erano ammassati sui binari per salire sui convogli diretti nella capitale. « Alcuni si vogliono mettere in salvo a Tunisi e restare lì, altri dicono di voler raggiungere gli uffici dell'Oim per chiedere il rimpatrio, tornare a casa loro, sono spaventati. Ero qui anch'io oggi (mercoledì, ndr) ho visto la massa di persone, erano tanti anche i poliziotti» racconta Oumar, originario della Guinea Conakry (non il suo nome vero, come gli altri menzionati). « Io però alla fine ho deciso di non salire sul treno. Ho cominciato a pensare che avrebbero potuto portarci tutti verso qualche altra destinazione. A Tunisi ci vado ora, con il treno della notte».

Non si è fidato Oumar, e ha fatto bene. Non tutti quelli partiti per la capitale ci sono arrivati davvero. Ieri mattina nei giardini all’ingresso della medina, uno dei quartieri simbolo di Sfax, un gruppo di ragazzi ci ha confermato che molti sono invece stati prelevati dai convogli e condotti sul confine con la Libia. «So per certo che sono stati fatti scendere giù dal treno, caricati su tre autobus e portati in Libia» dice Ibrahima della Sierra Leone. «Sono sicuro al 100%, perché ho parlato questa mattina con un amico che era a bordo e mi ha detto di trovarsi a Ben Gardane, sulla frontiera. Anche altri amici che erano a Sfax appena due giorni fa sono là. In Libia noi non abbiamo mai messo piede, qui il mio gruppo era arrivato partendo dal Marocco e attraversando l'Algeria, però sappiamo che quello non è un posto sicuro, tante vite sono andate perdute laggiù».

L'androne della stazione di Sfax, dal profilo Fb della radio locale

L'androne della stazione di Sfax, dal profilo Fb della radio locale - Ghirardelli

Più vicina in linea d'aria a Lampedusa che a Tunisi, Sfax è diventata il punto di partenza del maggior numero di viaggi verso l'Italia. Le violenze ora giungono nel mezzo delle trattative per formalizzare, con un tanto atteso memorandum, l'intesa abbozzata durante la missione tunisina dell'11 giugno della premier italiana Giorgia Meloni, dell'omologo olandese Marc Rutte e della presidente della commissione Ue Ursula von der Leyen. Ancora non c'è accordo sui meccanismi (e i finanziamenti europei) « per spezzare il modello di business dei trafficanti » come recita la dichiarazione Ue congiunta di giugno, che porta la firma anche del presidente tunisino Kais Saied. Il testo parla di «supporto alla Tunisia nella gestione dei confini (...). L’obiettivo è di sostenere una politica migratoria olistica radicata nel rispetto dei diritti umani».

Si chiedono, però, dove siano questi diritti, i ragazzi che abbiamo incontrato nel giardino di fronte alla medina. Nell'ospedale di Sfax è ricoverato Foudi, amico fraterno di Ibrahima, che racconta: « È in coma, non può respirare da solo, lo hanno colpito al collo, dietro la testa, due giorni fa. È stato un gruppo di tunisini per strada. L'altra notte, invece, un'altra banda di locali è piombata a casa nostra con grandi coltelli. Con quelli e con pietre hanno iniziato a battere contro la porta. Allora noi abbiamo chiamato la polizia, che però quando è arrivata ha iniziato a spargere gas lacrimogeni. I poliziotti dicevano di voler mettere al sicuro alcuni di noi e le donne, che sono state caricate su un'auto. Però sono finite direttamente sul confine con la Libia». Gli altri ragazzi, qui da due, otto o più mesi, riferiscono che «la situazione è precipitata di recente, ma fino a qualche settimana fa la vita sembrava normale in città. Ci hanno cacciato dalle case, lo vedi siamo riuniti qui. Non ci possiamo lavare, non ci sono bagni, restiamo insieme».

All’origine dello sdoganamento degli atti violenti contro i cittadini subsahariani era stato, a febbraio, un discorso durissimo contro le «orde di migranti clandestini» che il presidente Saied indicava come responsabili di « violenza, crimini e atti inaccettabili», in un piano criminale per cambiare «la composizione demografica della Tunisia». La morte per accoltellamento di un uomo tunisino per mano di alcuni migranti ha infuocato gli animi. Ora di Oumar, incontrato alla stazione, di Janette, di Moussa e degli altri che aspettavano il treno delle 3 non sappiamo più nulla. Né se si trovino a Tunisi e neppure se siano già approdati in Libia.

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