Il primo è che la donna che partorisce è sempre la madre legale del bambino, anche quando ha usato un ovocita non suo e quindi non esiste alcun legame genetico fra lei e il neonato, che ha il diritto di te- nere con sé e di non consegnare a chi glielo ha commissionato. La legge inglese non impone il rispetto dell’accordo fra la madre surrogata e la coppia committente: lo Stato non può obbligare all’adempimento del contratto, non può cioè obbligare la puerpera a rinunciare al bambino, anche se lei prima aveva acconsentito e poi ha cambiato idea, anche se il patto con gli aspiranti genitori è già stato formalizzato e le spese sono già state sostenute. In buona sostanza la legge inglese riconosce che la maternità è inseparabile dalla gravidanza; che fra donna e bambino che cresce nel suo corpo c’è un legame così forte e unico che prevale sempre se la madre rivendica per sé il figlio che ha portato in pancia, a prescindere da ogni contratto. Una donna non può che partorire il proprio figlio: sta a lei, in circostanze particolari, cedere i propri diritti legali sul bambino a un’altra coppia.
Questa è la ratio della legge britannica che, quindi, vuole escludere qualsiasi forma di commercializzazione e non prevede ricompense per la donna che affitta il proprio utero, ma solo il pagamento di spese 'ragionevoli' sostenute: un aggettivo che consente di pagare in modo surrettizio ma profumatamente le madri surrogate. Che il legislatore inglese riconosca l’eccezionalità del legame fra una donna e il bambino che ha partorito, e allo stesso tempo ammetta che si possa rinunciare a questo figlio per puro altruismo, è – a essere buoni – un eccellente esercizio di fantasia.
Coloro che commissionano la gravidanza diventano genitori legali attraverso un atto che riassegna la genitorialità, trasferendola dalla coppia surrogata agli aspiranti genitori: è il «Parental order», che può essere effettuato non prima di sei settimane dal parto, e comunque entro sei mesi. La coppia committente deve essere sposata o stabilmente convivente (indipendentemente dal fatto che la convivenza sia una civil partnership o no), almeno uno dei due deve avere un legame genetico con il neonato e deve essere domiciliato nel Regno Unito. Singoli individui sono esclusi. Se invece la coppia che ha commissionato la gestazione ha usato sia ovociti che liquido seminale di estranei deve procedere con l’adozione. La normativa si complica poi quando prevede che il partner della madre surrogata – marito, convivente riconosciuto o no – sia il padre legale del bambino, purché consenziente.
Considerando che dall’aprile 2010 l’accesso alla surroga è anche a coppie omosessuali, e che anche una donna sola può essere una madre surrogata, si apre una vasta gamma di scenari di cui si può avere una pallida idea consultando i siti istituzionali dedicati, che ipotizzano soluzioni per casi particolarmente – diciamo così – articolati. Riassumendo: ricorrere all’utero in affitto in Gran Bretagna potrebbe coinvolgere fino a sette persone: due donatori di gameti, diversi dalla coppia (omo o eterosessuale) che commissiona la gravidanza, e poi la madre surrogata e il suo partner (omo o etero). E naturalmente, infine, il bambino. Nei prossimi mesi sono previsti ulteriori aggiornamenti alle norme, in considerazione soprattutto della varietà delle possibili combinazioni di tutti gli attori. E poiché la legge dice di voler evitare ogni commercializzazione – inclusa la pubblicità – i contatti fra chi cerca e chi offre una surroga si creano mediante organizzazioni non profit. Una delle più importanti è Surrogacy United Kingdom: ha come motto «Maternità surrogata per amicizia», le cui iniziali sono «Suk». Il mercato caotico per eccellenza, dove puoi smerciare di tutto.