Il magistrato Gian Carlo Caselli
«Celebrare il 25 aprile può servire a “ripassare” la Costituzione, lascito principale della Resistenza partigiana, nella parte che disegna una democrazia emancipante: dove lo status del cittadino comprende non solo il diritto di voto, ma anche il diritto a condizioni di vita decorose e civili, anche per i poveri, i disoccupati e i precari, anche per gli anziani, i malati, gli stranieri. Così che la ricostruzione sappia resistere ad ogni tentazione di considerare zavorra questi soggetti meno protetti». Questo è per Gian Carlo Caselli, procuratore di Palermo e Torino, il senso della Festa della Liberazione nel tempo del Covid–19. E il perché ha aderito all’appello e accettato di essere tra i “garanti” dei fondi raccolti. «C’è ancora un gran bisogno di verità e l’appello può servire allo scopo. I morti sono morti e la morte li ha resi tutti uguali. È giusto, come lo è cercare di costruire pace nel cuore di tutti gli italiani. Nel rispetto però della verità e della storia, cioè tenendo ben salda la distinzione tra chi ha combattuto per la dittatura e chi invece ha combattuto per la libertà: la libertà di tutti, anche di quelli che erano dal-l’altra parte».
Cosa c’è di diverso e di uguale in questa giornata?
L’emergenza impedisce di stare insieme fisicamente. Ed ecco che si moltiplicano le iniziative per ritrovarsi a fare memoria della Resistenza, insieme ma virtualmente: una modalità assolutamente nuova, che però può coinvolgere più persone che nel recente passato, chiamandole ad una prova di coraggio, fiducia e fantasia in vista della ricostruzione dopo la pandemia.
Torna la parola “ricostruzione”, come allora. Ma ricostruire come?
È drammaticamente evidente che la pandemia sta causando – oltre ai danni alla qualità della vita e alla sicurezza delle persone – uno choc economico–finanziario gigantesco. Resistere significa quindi realizzare al più presto aiuti massicci sul piano nazionale ed europeo. E poi molte attività che la pandemia sta mettendo in ginocchio rischiano di chiudere. Si aprono così nuove opportunità allo sciacallaggio che è nel dna delle mafie. Uno scenario già di per sé cupo potrebbe persino tracimare in catastrofe. Di qui la necessità assoluta di giocare d’anticipo pianificando per tempo (come sta avvenendo) forme efficaci di contrasto che incidano sul primo manifestarsi degli appetiti mafiosi. Anche questo è resistere.
Come scrivete lei e Guido Lo Forte nel recente libro “Lo stato illegale”, il dopoguerra fu un momento fondamentale nella costruzione del rapporto tra mafia e poteri politici e economici. C’è anche oggi questo rischio?
Siamo stati spinti a scrivere dalla riflessione che in Italia i rapporti fra mafia e politica ci sono stati e ci sono, eccome: ma esiste una robusta corrente di pensiero che li nega con ostinazione. A tutto concedere, sarebbe roba periferica, da circoscrivere a poche mele marce e qualche appalto. Si tratta invece di un problema democratico di respiro nazionale e il libro lo dimostra per tabulas.
Anche nel contrasto alle mafie si è parlato di “resistenza”. Ma spesso fatta da uomini soli che hanno pagato con la vita. Ancora oggi manca spesso un “noi”.
Rispondo come lo storico Salvatore Lupo, secondo cui c’è una «richiesta di mafia nella società italiana», in settori dell’imprenditoria e della politica, del sistema finanziario e economico e di certi poteri costituiti. Per cui i risultati nel contrasto alla mafia sono stati ottenuti da minoranze spesso ostacolate e lasciate sole. Altro che noi...
Non aver chiarito tanti punti oscuri dei rapporti tra mafie e politica ci mette ancora a rischio? In particolare oggi?
Il libro dimostra pure che la mafia non costituisce una “semplice” anomalia in un corpo sociale complessivamente sano, una patologia del nostro sistema, ma un fenomeno molto più grave: l’esplicazione di un modello di sviluppo inquinato e inquinante che rischia di frenare e ostacolare la crescita dell’intero nostro Paese dopo aver bloccato quella del Mezzogiorno. I punti oscuri si spiegano anche così, come sistema di “difesa” di questo perverso modello di sviluppo.
Negli ultimi anni lei si è fortemente impegnato nel contrasto alle agromafie. Un fronte aggravato dall’emergenza Covid–19. Come ha detto il procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho, pensa che la regolarizzazione degli immigrati sia necessaria oltre che giusta?
Come Osservatorio di Coldiretti sulle agromafie, in epoca “non sospetta”, cioè prima ancora che esplodesse la pandemia, in collaborazione con l’Anci abbiamo elaborato, principale artefice Giovanni Salvi, attuale procuratore generale presso la Cassazione, un ambizioso progetto per una migliore disciplina e gestione del lavoro stagionale in agricoltura con interventi sui flussi migratori. Siamo quindi in linea con la proposta di Cafiero, che condivido in toto.