I contatti sono ormai costanti, quasi nell’ordine dei minuti. Letta, Renzi e Alfano si parlano sul serio. Non possono aspettare le primarie dell’8 dicembre. Il voto di fiducia al governo delle «nuove intese» si terrà forse l’11 dicembre, è impossibile mettere a punto un programma dettagliato in 72 ore. Le bozze con le riforme istituzionali e per cambiare il Porcellum viaggiano via mail alla velocità della luce. O si chiude in sette giorni o si rischia il caos. A leggere, rileggere e correggere i testi ognuno dei tre leader ha alle spalle una squadra di parlamentari e collaboratori che hanno in comune due cose: sono 40enni, e da tempo, da molto tempo, hanno superato l’odio viscerale tra berlusconiani e antiberlusconiani.
La trattativa si arroventa intorno a due nodi. Legge elettorale e abolizione del Senato. È qui che va trovata la quadra. Per superare il Porcellum sono rimaste due bozze: un sistema simil-spagnolo con collegi piccoli e liste ridotte per avere un effetto bipolare; un Mattarellum corretto, con doppio voto di collegio per il 25 per cento destinato alla ripartizione proporzionale (un’idea messa a punto dai renziani). Letta, Renzi, Alfano e il ministro delle Riforme Quagliariello sono vicini sui principi generali (riavvicinare eletti ed elettori, evitare il caos volontario del Porcellum), ma ancora distanti sugli scenari politici che la nuova legge può determinare: bipolarismo secco o vie d’uscita per rendere ancora possibili le larghe intese? Renzi, per il momento, fa la faccia feroce: «La sera del voto si deve sapere chi ha vinto e chi ha perso».
Stessa situazione per il superamento del bicameralismo perfetto. Il governo ha pronto un ddl da varare non appena si accerterà, dinanzi alle Camere, la volontà di Forza Italia di non partecipare al tavolo delle riforme. «Entro Natale agiremo», ha detto ieri Quagliariello. Il testo prevede un Senato delle regioni che però ha ancora una quota di parlamentari eletti da affiancare ai governatori (in totale, 200 poltrone a fronte delle attuali 315). Renzi non ci sta, non gli basta che Palazzo Madama non abbia più il potere di dare e revocare la fiducia al governo, vuole che i senatori spariscano e in Aula ci siano solo governatori e sindaci. «Se si passa da 1000 parlamentari a 600 – ha calcato ieri la mano il sindaco –, ce ne faremo tutti una ragione».Se si colmano queste distanze partirà un iter blindato: entro 3 mesi la riforma del Senato con annessa riduzione dei parlamentari (sul quale l’accordo è pacifico) deve ottenere il primo «sì» di Palazzo Madama. Nello stesso istante, alla Camera dovrà essere depositato lo schema della nuova legge elettorale. Tre mesi, non di più: perché questo, secondo i tre leader, è il tempo che la Consulta lascerà alla politica dopodomani, quando prenderà in carico il ricorso contro il Porcellum.
Sugli altri punti del nuovo programma le differenze sono più sfumate. Letta alle Aule chiederà di chiudere subito l’abolizione delle province e il superamento del finanziamento pubblico ai partiti, e Renzi lo sosterrà. Così come sembra possibile trovare una strategia comune per battere i pugni ai prossimi Consigli Ue, incassare margini di flessibilità da reinvestire in lavoro e fisco e "rivenderseli" in vista di Euroelezioni che saranno segnate dall’assalto dei populismi.
Le squadre che stanno lavorando alla trattative non sono un contorno insignificante della vicenda. Ci sono gli altri ministri Ncd Lupi, Quagliariello, De Girolamo e Lorenzin. Anche loro, negli ultimi giorni, hanno cercato contatti diretti con Matteo Renzi. Ci sono i lettiani Russo, De Micheli, Boccia, Meloni, i renziani Nardella, Boschi, Richetti, Bonafè, gli under 40 del Nuovo centrodestra Saltamartini, Bosco, Rosanna Scopelliti (un po’ più defilata, ma non estranea, la sinistra di Orfini, Orlando, Fassina). Sono loro a tessere la tela, e che continuano a tenere i rapporti anche con le nuove generazioni ora all’opposizione: da Carfagna e Gelmini sino, addirittura, a giovani grillini come Di Maio e Di Battista considerati «di spessore».
Mentre loro lavorano, i leader in pubblico continuano a non scoprire le loro carte. «Le larghe intese sono finite, c’è una maggioranza d’emergenza. Ora Letta deve correre», insiste il rottamatore per non apparire troppo "pacifico". E anche Alfano, dall’altra parte del tavolo, tira la tovaglia: «Sarà un governo delle chiare intese, ci sarà un patto che si chiama Italia 2014 e la giustizia è un capitolo sul quale il Pd non ha più alibi. Ma dal 2015 saremo alternativi al centrosinistra». Letta è al centro, mediatore paziente ma convinto di poter vincere la scommessa: «Il cambiamento non si costruisce con lo scontro, si cambia davvero se usciremo da questa esperienza con una comunità politica più coesa». Ognuno, insomma, rinunci a un pezzettino delle sue pretese, e dal 2015 inizia una storia nuova. Con i 40enni, per la prima volta, in cabina di comando.