Il team di salvataggio della nave dell’Ong Sos Méditerranée
«Sono nata questa mattina, mi chiamo Mercy». Tra le cabine della Aquarius il refrain di ieri è quello di una canzone francese. 'Mercy', del duo elettropop Madame Monsieur. Mercy, 'grazie' in francese, 'misericordia' nella traduzione anglofona. Un pezzo dedicato alla bambina nata a bordo della nave di Sos Méditerranée, lo scorso 21 marzo, mentre stava per entrare nel porto di Catania. Qui se la ricordano in molti. I genitori, una ragazza nigeriana e un ragazzo ghanese, erano stati salvati poche ore prima, nello stesso tratto di mare dove si trova attualmente la Aquarius. «Abbiamo ascoltato il suo primo vagito in diffusione – ricorda Mathilde Auvillain, capo della comunicazione per Sos Méditerranée – il fatto che sia stata selezionata tra le concorrenti al prossimo Eurovision Contest ha riportato alla mente di tutti quei giorni».
A bordo dell’imbarcazione di Sos Méditerranée e Medici senza Frontiere, la giornata di ieri è trascorsa interlocutoria. Nessuna nuova segnalazione di natanti in arrivo, dopo i tre gommoni partiti all’alba dell’1 gennaio. Le condizioni del mare stanno gradualmente peggiorando. «Il mare monta – spiega Luca Salerno, capo progetto di Medici senza frontiere a bordo, nel consueto briefing mattutino – ma si prevede un miglioramento già a partire dal 4 gennaio». Nella clinica di Medici senza frontiere è tempo di bilanci, analisi, allestimenti. Ci si prepara per nuovi salvataggi. Marco Gabaglio ha 34 anni e viene da Como. Si sta specializzando in anestesia e rianimazione all’Università dell’Insubria. Dal 13 dicembre scorso è a bordo della Aquarius. Ci rimarrà fino al 13 marzo, per completare il tirocinio del corso di Medicina umanitaria che sta portando a termine con l’Ateneo del Piemonte orientale, nell’ambito del Crimedim.
«Mi sono sempre interessato a questioni migratorie – racconta Marco – in passato ero stato a Kelle, vicino Dakar, per un mese, con una piccola organizzazione delle mie parti. Mi occupavo di bambini di strada. Poi, a Como, ho seguito la genesi e l’evoluzione dell’accampamento di migranti sorto vicino alla stazione. È lì che ho trattato i primi casi di scabbia e di assideramento. È stato un buon rodaggio». Degli ultimi salvataggi avvenuti a dicembre, ricorda soprattutto quello di Santo Stefano. «Abbiamo lavorato fino a tarda notte tutte le sere – ricorda – c’erano una ventina di ragazzi che presentavano ustioni da gasolio sulla pelle. E avevamo a disposizione solo metà della clinica, perché avevamo dovuto isolare un ragazzo eritreo, che aveva una sospetta tubercolosi. Io, peraltro, durante i primi giorni sulla Aquarius avevo patito il mal di mare. Una variabile da tenere in considerazione. Poi il fisico si è abituato.
È stato tutto emozionante e stancante al tempo stesso. Ma molto formativo». Lo scafo della Sea Watch III si staglia sul mare, a poca distanza. L’equipaggio della organizzazione non governativa tedesca si avvicina con un gommone. Ci si scambiano gli auguri per un buon 2018. Dal ponte della Aquarius un pacco verde finisce nel battello pneumatico dei colleghi. I due equipaggi si troveranno a pattugliare la stessa zona, a poche decine di miglia dalla costa di Zuara, per i prossimi giorni. «L’organizzazione è molto rodata – racconta ancora Marco – ci vuole poco a sentirsi parte del team. Dopo aver vissuto il primo salvataggio, mi sono reso conto anche della qualità del lavoro portato avanti dagli operatori di Sos Méditerranée. Credo che ci sia molta disinformazione, almeno in Italia, su quello che realmente fanno queste organizzazioni. Sull’importanza del lavoro che svolgono. Andrebbe raccontato di più».