mercoledì 4 dicembre 2024
La sentenza della Consulta sulla riforma conferma che erano fondate le preoccupazioni per il rischio di una scissione tra solidarietà e sussidiarietà, con ricadute sul tessuto sociale del Paese
Il presidente della Corte costituzionale Barbera (a sinistra) con i presidenti della Repubblica e della Camera, Mattarella e Fontana

Il presidente della Corte costituzionale Barbera (a sinistra) con i presidenti della Repubblica e della Camera, Mattarella e Fontana - ANSA

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A voler esaminare la legge sull’autonomia regionale differenziata attraverso lenti non appannate dalle appartenenze politiche, sarebbero subito saltati agli occhi tre aspetti evidenti. Il primo è che non poteva essere incostituzionale “in toto”, perché è la stessa Costituzione (all’articolo 116, così come riscritto nel 2001 dalla riforma dell’articolo V voluta dal centrosinistra) a prevedere la possibilità di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» per le Regioni a statuto ordinario. Si sarebbe trattato, insomma, di dichiarare incostituzionale la Costituzione stessa. Il 14 novembre, quando la Corte rese nota la decisione che è poi stata strutturata nella sentenza depositata ieri, è perciò parsa subito fuori luogo l’esultanza di molti fautori della riforma per la sua legittimità complessiva. La verità, come titolammo allora, è che i giudici della Consulta hanno di fatto smontato la legge Calderoli. Il secondo aspetto, più complesso ma non meno chiaro, è che tra le materie di legislazione concorrente elencate all’articolo successivo della Carta, il 117, ve ne sono alcune che oggi più di ieri risultano - come scrive la Corte - «difficilmente trasferibili» a singole Regioni, dato «l’onere di giustificare la devoluzione alla luce del principio di sussidiarietà». Questo perché dal 2001 la competenza legislativa dell’Unione Europea si è ampliata fino a diventare preponderante su quelle dei singoli Stati membri. Insomma, forse non serviva la Corte costituzionale per capire che non possono (o non possono più) essere affidate a una Regione il commercio con l’estero e quello con altri Stati della Ue, la tutela dell’ambiente, il trattamento dell’energia, la gestione dei porti e degli aeroporti e - in relazione alla necessità dello Stato di mantenere unitario il sistema di istruzione nazionale - la scuola. E veniamo al terzo aspetto, anch’esso più che intuibile dall’impianto della normativa: innalzare il livello di concorrenza tra Regioni e tra Stato e Regioni può mettere a rischio la solidarietà nazionale e, al contempo, tradire il principio di sussidiarietà per l’aumento dei costi, in quanto l’autonomia differenziata così congegnata non centrerebbe i suoi obiettivi - si legge nella sentenza - di «migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, assicurare una maggiore responsabilità politica e meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini». Nel maggio di quest’anno, una Nota del Consiglio episcopale permanente della Cei sulla riforma esprimeva preoccupazione per il rischio di una possibile scissione tra i principi di solidarietà e di sussidiarietà, con conseguente impoverimento del tessuto sociale e minaccia all’unità della Repubblica. Una preoccupazione che, alla luce della sentenza della Corte costituzionale, si conferma fondata.

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