Pratiche per la protezione internazionale a rilento a Milano - Fotogramma
Pratiche “tartaruga” a Milano per le richieste di protezione internazionale tanto che i sei giudici della sezione specializzata per l’immigrazione sono ancora impegnati a smaltire le richieste che risalgono all’ondata migratoria del 2018-2019. Ciascuno di loro avrebbe duemila cause pendenti da sbrigare e quasi tutte relative alle impugnazioni presentate da migranti ai quali le Commissioni Territoriali hanno respinto in prima istanza la richiesta di protezione. Nel conto delle pratiche non ancora evase ci sarebbero anche le richieste riguardanti la protezione speciale, che consiste in un permesso di soggiorno che spetta ai richiedenti asilo che non possano usufruire dello status di rifugiato, concesso invece a chi rischia la persecuzione per motivi sessuali, religiosi o etnici nel proprio Paese d’origine, o della protezione sussidiaria per le persone che, se tornassero in patria, correrebbero un rischio effettivo di subire «un grave danno».
La possibilità di ottenere la protezione speciale è stata abrogata dal decreto Cutro ma non retroattivamente. Questo significa che, vista l’estrema lentezza dell’iter, per molto tempo ancora i magistrati dovranno confrontarsi con le domande pendenti. Nel 2022 sono state 10.856 le persone che si sono viste riconoscere la protezione speciale secondo i dati del ministero dell’Interno. A Milano ci sono tre Commissioni Territoriali, un numero che a detta degli esperti pare esiguo vista l’entità del lavoro da svolgere. Insomma, manca personale. Una norma del 2011 prevede che la Corte d’Appello debba decidere «entro sei mesi» dalla presentazione del ricorso, termine che risulta ampiamente superato la gran parte delle volte. Alcuni migranti hanno chiesto e ottenuto un risarcimento in base alla legge Pinto. Nel 2021 il giudice di Catania, Giuseppe Alfonso, ha condannato il ministero della Giustizia a risarcire un cittadino del Mali «per il superamento della ragionevole durata del processo» con una somma di 3.200 euro. La riforma Minniti aveva abolito nel 2017 la possibilità dell’appello lasciando solo la Cassazione come possibilità per chi si vedeva respingere la richiesta di protezione internazionale.
Quanto alla lentezza del percorso, l’avvocato milanese Paolo Oddi, legale esperto in materia, ha osservato che poiché per arrivare alla comparizione davanti alla Corte d’Appello, cioè all’inizio vero e proprio della causa, «ci vogliono 4-5 anni, molti migranti riescono poi a restare nel nostro Paese perché, quando arrivano davanti ai giudici, dimostrano di avere fatto un percorso virtuoso, trovando un lavoro stabile e costruendo dei legami e gli viene concesso un permesso speciale. Qualche giorno fa mi ha chiamato la moglie di un richiedente dal 2019, esausta per l’attesa. Anche per loro è difficile capire perché passi così tanto tempo». Avere un permesso dopo molti anni, secondo il legale, non va visto solo come una possibile prospettiva di vantaggio per il migrante «perché comunque l’allungamento della procedura potrebbe averlo privato per molto tempo di un suo diritto». La concessione o meno della protezione passa attraverso un certo margine di discrezionalità dei giudici che sono spesso chiamati a interpretare diverse «fonti autorevoli», come ha spiegato Oddi. «Il richiedente ha l’onere probatorio ma il giudice deve cooperare cercando dei riscontri. Se per esempio chi chiede la protezione dice che c’è stata una rivolta nel suo Paese, il giudice, così come anche la Commissione deve fare, controllerà anche da siti considerati credibili, dai media e da altri canali. Gli interrogatori spesso durano molte ore. La valutazione ha a che fare anche con la geopolitica». Qualche esempio portato dai legali milanesi: sì alla protezione sussidiaria a un ventenne ucraino che non voleva arruolarsi, no a un giovane iraniano che denunciava di aver subito angherie, non dimostrate secondo la Commissione, no a un albanese che raccontava di una persecuzione sulla base di leggi non scritte tribali ancora vigenti in alcune zone del suo Paese.