Può sembrare strano, ma per uscire
davvero dal carcere (cioè per non tornarci più) bisognerebbe restarci per un periodo idoneo a imparare un mestiere o a rapportarsi con la società. Sebastiano Ardita, direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento amministrazione penitenziaria, sintetizza il concetto con la formula «stabilità della detenzione». Una stabilità che oggi non c’è. Le prigioni italiane scoppiano, ma hanno le porte girevoli: troppo spesso si entra e si esce nel giro di pochi giorni. E dopo un po’ si rientra e poi si riesce... Una triste giostra che sta per andare in tilt.
È stata sfondata quota 66mila. Di questo passo, quando saranno pronti, i circa 20mila posti in più previsti dal piano straordinario non basteranno...Certo, è fin troppo evidente che la logistica non basta a risolvere e il problema. Occorre un’azione su molti piani. In primo luogo serve un approccio di tipo normativo, che serve a comprendere che cosa il carcere deve “coprire” come spazio di sicurezza e di repressione. È utile riflettere su un dato: in Italia, la metà circa degli arrestati esce dal carcere in meno di un mese. In questo senso, con la costruzione di nuove strutture, noi abbiamo un’opportunità che non abbiamo avuto in passato.
Quale?In passato abbiamo adeguato vecchie strutture alla nuova realtà della popolazione penitenziaria: l’85% del nostro patrimonio immobiliare carcerario è formato da costruzioni antecedenti al 1800, penso a Regina Coeli, a San Vittore, a Poggio Reale. È arrivato il momento di disegnare la detenzione del futuro.
Lei come se l’immagina?Si potrebbe dividere il carcere in due grandi realtà: l’area dell’«accoglienza» per coloro che, a causa di un fenomeno di disfunzione del sistema penale, entrano e stanno pochi giorni; l’area del «trattamento» vero e proprio per tutti gli altri.
Ha parlato di «disfunzione del sistema penale». Vuole dire che molta gente finisce in cella inutilmente?È chiaro che, a monte, si dovrebbe pensare a interventi normativi in grado di mettere fine alla detenzione «di flusso». Ma questo compito non spetta a noi dell’amministrazione penitenziaria. Il Parlamento può, ma ormai da anni si va affastellando una legislazione penale basata solo sulla repressione e sulla dissuasione sociale.
Nel Lazio, il 50% dei detenuti è in attesa di giudizio.Molte volte anche in attesa di misure confermative della custodia cautelare... Appunto. Abbiamo un sistema penale che non garantisce né sicurezza né trattamento.
Così, per molti, il carcere diventa solo un posto dove farla finita.Purtroppo. I suicidi sono tanti, sono troppi comunque. Anche se negli ultimi 10 anni la media è calata, scendendo sotto l’1 per mille. Nel 2009 è stata di 0,8 ogni mille detenuti: 58 suicidi. In ogni caso troppi, ripeto. Il carcere non può, non deve condurre alla morte. Mai.
Lei ha presieduto la commissione d’indagine del Dap sulla morte di Stefano Cucchi. Che idea si è fatto di quell’assurda tragedia?Il giudizio sulle responsabilità potranno darlo soltanto i magistrati. Noi, con il massimo rigore, abbiamo riscontrato, segnalato e modificato diverse cose che non andavano sul piano organizzativo.
Il tasso di recidiva tra i detenuti che lavorano è molto inferiore rispetto a quello dei reclusi che non fanno niente. Ma quanti sono?I lavoratori presso ditte esterne, per lo più cooperative sociali o aziende private, sono meno di 2mila. Si tratta di dipendenti a tutti gli effetti, con busta paga e applicazione dei contratti collettivi nazionali. Poi ci sono 10-12mila che svolgono servizi interni, finanziati con i fondi del Dap: pulizie, minuta manutenzione dei fabbricati, spesa. È una condizione meno qualificante del lavoro esterno, ma aiuta a ritrovare l’autostima.
Perché è così difficile far decollare progetti formativi dietro le sbarre?Il presupposto è proprio la stabilità della detenzione. Oggi, su 66mila presenti, abbiamo una larghissima fetta di persone che transitano per pochi giorni, al massimo per pochi mesi. Poi c’è una fetta minoritaria di detenuti più stabili, ma per lo più sono soggetti classificati come pericolosi per aver commesso reati gravi, per esempio di mafia. In questi casi esistono vincoli normativi al trattamento, dettati da esigenze di sicurezza e di prevenzione. Resta infine una porzione di qualche migliaio di detenuti, per la quale la speranza di recupero è maggiore.