Occhio alle mutazioni del virus, ma non a tutte: «Verificate sempre se i cambiamenti siano correlati con una minore attività nei test di laboratorio... ». Filogenesi e biologia vanno sempre a braccetto nella visione di Robert C. Gallo, uno dei virologi più importanti del mondo e sicuramente uno dei pochi noti anche a chi non si occupa di medicina, da quando ha legato il proprio nome alla scoperta dell’Hiv, il virus dell’Aids. Oggi, il distinguished professor della Homer & Martha Gudelsky Foundation dirige l’Istituto di virologia umana (Ihv/Som) dell’Università del Maryland, a Baltimora, ed è il cofondatore e il consulente scientifico del Global Virus Network, la coalizione internazionale di virologi che si prefigge di aiutare la comunità medica a gestire le malattie virali. La sua ultima sfida scientifica è proprio contro il SARS-CoV-2, del quale sta studiando le mutazioni. Gallo è convinto che dalla pandemia usciremo solo con un vaccino e – come spiega in quest’intervista – che potremmo guadagnare parecchio tempo utilizzando quello della polio. Il luminare americano parla del Sabin (Opv), che è il virus orale attivo, non utilizzato in Italia, dove si usa il Salk, cioè la forma inattivata. Il Sabin ha permesso di eradicare la poliomielite in Europa ed è raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità.
In Italia ci si interroga se il virus stia mutando, se da questo dipenda il calo dei contagi e come monitorare il declino della pandemia. Lei che cosa ne pensa?
Il virus sta mutando, come abbiamo pubblicato recentemente noi e altri gruppi ma, per capire il significato biologico di questi cambiamenti, l’approccio migliore resta quello di seguire le sequenze delle mutazioni che avvengono a livello di genoma e verificare se dei cambiamenti siano correlati con una minore attività del virus nei test di laboratorio.
Pensa che il Sars-CoV-2 possa sparire di colpo, come fece la Sars?
È possibile, ma mi sembra improbabile.
Cosa fermerà prima il virus: un vaccino o un antivirale?
Nessuno lo sa. Ho il sospetto che si tratterà di un vaccino, ma non sono affatto sicuro che ne scopriremo uno veramente buono ed è abbastanza facile che, come per l’influenza stagionale, possa essere necessario assumere un vaccino ogni anno, se questo coronavirus ritornasse e poi ritornasse...
Sta lavorando per usare il vaccino della poliomielite contro il Covid-19. Perché?
Perché il vaccino orale contro la poliomielite è sicuro – è stato somministrato a miliardi di persone, senza complicazioni – e produce una forte immunità innata nel paziente, quindi attraverso una risposta del sistema immunitario rapida ma non specifica. Credo anche, però, che esso non possa funzionare molto a lungo. Tuttavia, malgrado quest’immunità non duri probabilmente più di alcuni mesi, questo vaccino potrebbe essere usato più volte, magari abbassando la curva dei contagi e dandoci un anno o più, per trovare un vaccino specifico contro il Covid-19.
Da dove nasce quest’idea?
Ci sto lavorando da tre mesi con Konstantin Chumakov, un virologo russo. Negli anni Settanta i suoi genitori, anch’essi virologi, segnalarono che il vaccino attivava anche altri meccanismi protettivi oltre a quelli utili a fermare la polio e questo è stato successivamente dimostrato. Ora, il figlio lavora alla Fda e quando mi ha segnalato questa soluzione, mi ha subito convinto. Ovviamente, qui negli Usa servono prove scientifiche rigorose per utilizzare un vaccino contro un nuovo virus e ciò rallenta l’iter, ma, d’altro canto, rischiamo di perdere un’opportunità. Sto presentando la richiesta per i fondi che serviranno a finanziare la ricerca, insieme ai colleghi di Buffalo e Cleveland.
Negli Usa si fa un gran parlare di complotto cinese. Crede che Pechino abbia nascosto dei dati o che li stia nascondendo ora?
Se davvero fosse stato nascosto qualcosa come potremmo saperlo? Scherzi a parte, io non penso davvero che nascondere i dati sia un costume dei colleghi cinesi, ma riguardo al loro governo è una domanda legittima. Una domanda alla quale, tuttavia, non possiamo rispondere.
Perché il virus è più aggressivo nelle aree temperate e non nel continente africano o nel sudest asiatico?
L’infettività sembra essere legata alla temperatura, come dimostrano gli studi di Mo Sajadi e in modo più dettagliato quello più recente di Davide Zella e Francesca Benedetti, che lavorano presso il nostro Istituto e vengono dal Nord Italia; hanno lavorato su questo tema con scienziati di Trieste (Rudy Ippodrino, Bruna Marini e Maria Pachetti) e Roma (Massimo Ciccozzi). I risultati saranno noti tra qualche giorno e daranno indicazioni interessanti per le misure di allontanamento sociale, ma possiamo già dire che è stata osservata una correlazione tra alte medie giornaliere delle temperature e un minor numero dei decessi.
Quali errori ha fatto il mondo nella lotta contro il Covid- 19?
È stata prestata un’attenzione inadeguata alla virologia e in particolare al Global Virus Network, sono stati utilizzati animali selvatici anche in aree densamente popolate ed è stata dedicata un’insufficiente attenzione all’ambiente.