Nei 68 anni trascorsi dalla fine della guerra, 62 governi - da Parri a Monti - e 70 crisi di governo (di cui 8 rientrate) avevano sinora partorito un corpus di regole assai barocco e complicato sulla formazione dei governi. Consultazioni, incarico, reincarico, pre-incarico, mandato esplorativo, parlamentarizzazione delle crisi, dimissioni rientrate, governi balnerari, tecnici, a tempo, di convergenze parallele o con appoggio esterno erano gli utensili che l’esperienza aveva affinato per far fronte a situazioni complesse, nelle quali l’italico ingegno aveva trovato una via alla
concordia discors. Gli anni del maggioritario - pur con tutte le loro contraddizioni - avevano in parte trasformato quegli utensili in oggetti polverosi, custoditi in cantina, cui si pensava di non dover far più ricorso, ma che venivano conservati come si fa con le eredità della bisnonna. Ora la presente crisi di governo non ha solo riportato alla luce alcuni vecchi arnesi, come il pre-incarico, ma ne ha fabbricati di nuovi, non privi di aspetti problematici. In quattro giorni, di fronte alle difficoltà che avrebbe incontrato un esecutivo affidato a Pier Luigi Bersani, leader della coalizione maggioritaria alla Camera, abbiamo assistito dapprima alla sospensione del pre-incarico affidato al leader del Pd, poi a un secondo giro di consultazioni "ristrette" del presidente della Repubblica a incarico "aperto" (senza cioè che Bersani avesse formalmente rinunciato), indi allo spettro delle dimissioni del presidente della Repubblica (date più volte da precedenti titolari della carica, ma sinora mai ventilate o ipotizzate) e infine - nella convulsa giornata di ieri - a una soluzione che fa scivolare lentamente la crisi verso la cosiddetta "soluzione belga", vale a dire un limbo nel quale è congelato il governo uscente. È bene sottolineare i passaggi tecnici di quanto è accaduto ieri: il capo dello Stato non ha fatto nulla di ciò che le prassi precedenti avrebbero suggerito, cioè conferire un incarico, un pre-incarico o un mandato esplorativo o, al limite, avviare ulteriori consultazioni. Ha invece designato due gruppi di esperti - sulle questioni istituzionali ed economiche - per far emergere soluzioni comuni tra le forze politiche. E ha in pratica sospeso il procedimento di formazione del governo, congelando il governo Monti (dimissionario ma non sfiduciato, ha detto). Questo assetto pone almeno due problemi alla luce non solo delle prassi, ma dei principi costituzionali attorno a cui esse sono costruite. Il primo è il ruolo del presidente della Repubblica nel procedimento di formazione del governo: al capo dello Stato spetta, secondo la Costituzione, la scelta del presidente del Consiglio, al fine di formare un governo che goda della fiducia delle Camere. Non gli spetta, invece, la scelta delle formule di governo, che ricade nell’autonomia dei partiti e che deve essere fatta emergere dal presidente del Consiglio incaricato o, al più, da un "esploratore". E questo confine costituzionale nasce da un’esigenza profonda della forma di governo parlamentare, nella quale il capo dello Stato - privo di legittimazione democratica diretta - ha un ruolo di prudente mediazione e consiglio, ma non di scelta e di decisione (come da ultimo ha ricordato la sentenza n. 1 del 2013 della Corte costituzionale). Il secondo problema è posto soprattutto dalla sostanziale interruzione del procedimento di formazione del governo e dal congelamento dell’esecutivo uscente. Gli articoli 92 e 94 della Costituzione, che prevedono rispettivamente che il capo dello Stato nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questi, i ministri, e che il governo deve avere la fiducia delle due Camere, vanno infatti letti alla luce del principio democratico. In questo senso essi configurano un’attività costituzionalmente doverosa, che è una fase di un processo più ampio, il quale dalla campagna elettorale, attraverso le elezioni, si snoda nella formazione di un governo espressione della maggioranza parlamentare. "Congelare" un governo dimissionario che, pur non essendo stato formalmente privato della fiducia, è stato costretto a dimettersi nello scorso dicembre per il ritiro del sostegno di uno dei partner dell’ex «strana maggioranza», equivale a mettere fra parentesi il risultato elettorale, per quanto problematico. Detto ciò su quanto si è visto finora, occorre sospendere il giudizio e rinviare ogni valutazione al risultato finale del tentativo di risolvere la crisi, facendo affidamento sull’esperienza dell’attuale presidente della Repubblica. Al tempo stesso, però, non si può non notare che il risultato elettorale del 24-25 febbraio ha messo alla corda quel che restava del sistema parlamentare italiano, producendo un’ulteriore e inedita torsione presidenziale. Sarà la storia a dire se in questi giorni stiamo assistendo a convulsioni passeggere o alla crisi finale della nostra forma di governo e al difficile parto di un sistema simil-, semi- o para-presidenziale, in cui un capo dello Stato che svolge un ruolo così incisivo non potrà che avere alle sue spalle una legittimazione democratica diretta.