Arturo Parisi, uno dei padri fondatori dell’Ulivo anni 90, assiste con sgomento all’ennesima caduta di un leader del centrosinistra. Al professore chiediamo innanzitutto chi ha sbagliato di più fra Letta e Renzi. «Con la premessa di riconoscere un’oggettiva scompostezza al passaggio attuale, direi Letta. Vorrei dirlo con la voce più bassa possibile, e con affetto. Lo immagino mentre ascolta i numeri, decisamente imbarazzanti, della sua sconfitta, mentre i pochi lettiani rimasti lasciano scorati la sala. Penso alla sua sofferenza, allo scoprirsi tutto d’un tratto solo, privato del sostegno di protettori e amici sui quali aveva fatto conto, e perfino degli alleati coi quali aveva immaginato di formare, dopo la lasca intesa con Berlusconi, addirittura una maggioranza politica. E ricordo il frettoloso passaggio di consegne della segreteria Pd a Epifani, e Bersani che dice, vado a memoria, «ditelo ai giovani: quando si perde si perde da soli». Quasi a dire 'è bene che uno muoia se alleggerisce il partito delle colpe di troppi'. Detto questo, ripeto: ha sbagliato di più Letta. E, assieme a lui, tutti quelli che in questi mesi non gli hanno parlato con parole di verità».
Cosa poteva fare di più il premier? Forse sarebbe meglio cominciare da quello che non doveva fare. Dare ad intendere che avrebbe portato a termine il percorso di riforme in 18 mesi, ricontati ogni giorno, e riempirlo intanto di adempimenti pensati per poter durare 5 anni. Accettare di eliminare l’Imu come impegno qualificante dell’alleanza con Berlusconi e allo stesso tempo lavorare ad aggirare l’impegno. E soprattutto parlare della crisi al passato, mentre della crisi tutti pensiamo di essere solo all’inizio.
E cosa, invece, ha mancato di fare? Difendere il suo governo dalla sfida di Renzi. Letta ha immaginato di tener fuori dal congresso Pd il giudizio sul governo, incoraggiando addirittura i suoi a schierarsi sui fronti avversi.
Come avrebbe dovuto difenderlo? Difendendo le sue ragioni e le sue speranze, proprio dentro quelle primarie che si annunciarono subito come una sfida tra lui e Renzi. Fu appunto da Avvenire che glielo chiesi, in un’intervista del 19 agosto. La rileggo: «È inevitabile che Letta scenda in campo in difesa della linea incarnata dal governo che guida. Per conquistare quel consenso di cui all’inizio non disponeva e per cercare tra gli elettori del Pd quella forza che ancora gli manca... Senza, il suo governo è destinato a galleggiare rinviando ogni volta a domani la realizzazione dei suoi obiettivi immaginando così di rinviarne la fine». Mi dissero che sorrise, leggendo il mio invito. Ha cercato forza nella durata dei giorni passati, conquistandoli - come ha riconosciuto l’altro giorno - uno alla volta, piuttosto che nel confronto e nella competizione tra progetti futuri.
Passiamo a Renzi: lo si descrive o come un ambizioso arrivista o come uno che non ha alternative a un’azione 'energica', visto lo stato in cui versa la politica italiana. Che ne pensa? Vedo un Renzi che confessa «una ambizione smisurata « e afferma «se non avessi rischiato nella mia vita, ora sarei al secondo mandato alla Provincia». Un linguaggio aspro, cui non siamo abituati, inusuale e intenzionalmente provocatorio. E tuttavia, agli 'io' travestiti da 'noi' quando si tratta di ripartire le perdite, e esibiti da 'io' solo se ci sono da rivendicare meriti, non ho difficoltà a riconoscere che preferisco l’'io' rotondo di Renzi. Solo un 'io' così può essere chiamato, dopo, a un rendiconto. Sono sicuro che Renzi ne è cosciente. E sa che non gli faranno sconti. Ma un governo Renzi con la stessa maggioranza quali possibilità ha, in concreto, soprattutto per le riforme da fare?
Una bella domanda. Tuttavia la risposta non tarderà molto ad arrivare. Non sarà necessario attendere il 2018 per capire se il traguardo è a portata di mano. La risposta arriverà presto, se dovessimo accumulare ritardi su quella tabella di marcia che il governo non potrà non declinare ora, alla sua nascita. La leadership di Renzi, fatta di velocità e ritmo, può sopportare tutto fuorché il ritorno al calendario dilatorio del governo Letta. E men che mai il ritorno a vecchi balletti fra legge elettorale e riforme costituzionali.