Ci avevano colpito in positivo, circa 40 giorni fa, le parole del viceministro Maurizio Leo, addetto ai temi fiscali, sull’evasione delle tasse definita «un macigno come il terrorismo». E avevamo scritto che erano parole da verificare alla prova dei fatti.
Un primo riscontro con la realtà ce lo hanno fornito gli ultimi giorni, dapprima con il varo del decreto delegato che riforma la riscossione, quindi con un duplice intervento sul tema della presidente del Consiglio Meloni. Stavolta è stata più accorta nel dosare le parole rispetto a un anno fa, quando si era spinta fino alla famosa frase sul «pizzo di Stato» che tante polemiche aveva suscitato. La premier ha parlato di «un nuovo approccio», perché «di uno Stato che vessa è più difficile fidarsi». E fino a qui si può concordare, anche se fa sempre effetto sentire una presidente del Consiglio che parla di «Stato vessatore», e anche se queste restano espressioni non immuni da toni di propaganda elettorale. Per di più pronunciate subito dopo un nuovo intervento legislativo che genera più di qualche perplessità.
Per chiarezza va premesso che la revisione della riscossione ha il pregio di affrontare di petto una questione sin troppo annosa: l’esistenza ormai di un magazzino di crediti fiscali non riscossi che negli anni ha raggiunto l’astronomica cifra di circa 1.200 miliardi di euro e che lo stesso direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, ha più volte definito «ingestibile». Dire, come a lungo hanno fatto governi di altro colore politico, che si stava facendo una seria lotta all’evasione e poi mantenere in piedi questo enorme magazzino è una delle tante ipocrisie di cui si permea il sistema.
In realtà i crediti cosiddetti inesigibili almeno in parte si possono esigere, al di là di quel che si dice: tutto sta a mettere in campo strumenti tecnici più incisivi, per dotarsi dei quali serve però prima di tutto una reale volontà politica (capace anche di alienarsi qualche simpatia elettorale), che è il “motore” di ogni iniziativa. Ora l’esecutivo di centrodestra punta a far chiarezza, annunciando che – trascorsi cinque anni – le cartelle non recuperate saranno rimandate all’ente di emissione che, a quel punto, deciderà quale fine fargli fare. Una chiarezza che tuttavia – ecco il rovescio della medaglia – è anche in certo qual modo un segnale di resa. Di uno Stato che rinuncia a riscuotere entrate che gli spetterebbero. Per di più dopo che dal 2018 era in corso un forte recupero dell’evasione. Non va trascurata una grossa distinzione da fare: un conto è l’evasione da mancate dichiarazioni (la più grave, questa sì da debellare), altro è l’evasione da riscossione, cioè dal mancato pagamento di quanto contestato dall’amministrazione.
In ogni caso resta un segnale, che si somma ad altri giunti negli ultimi tempi, come i debiti fiscali sin troppo diluiti in 10 anni, le “rottamazioni” a raffica (con tanto di proroga della proroga) e il discusso concordato preventivo biennale “a maglie larghe”, esteso anche ai contribuenti ritenuti poco affidabili e, quindi, probabili evasori. Insomma, il “dna tributario” – per così dire – del centrodestra sembra rimasto invariato. Connotato da un rapporto più sereno tra Fisco e contribuente e da richieste “più umane”, assieme all’indicazione che la vera evasione starebbe nelle grandi società, le “big company”, che certo ne rappresentano una quota rilevante.
Il tutto inserito in un quadro impostato su quella linea generale di riduzione della pressione fiscale che il governo Meloni ha avviato. E questa rimane senza dubbio la priorità da perseguire. Non vorremmo però che certi messaggi troppo “tolleranti” finissero anche col favorire il pensiero che le tasse si possono sempre pagare... domani. Dando una spinta a trasformare l’Italia sempre più anche in un Paese diviso fra partite Iva (e altri) che guadagnano a fatica e cercano di evadere e lavoratori a reddito sicuro, ma tartassati.
E questo mentre all’orizzonte si profila un’Europa che tornerà dal 2025 ad assumere un volto più arcigno, con il nuovo Patto di stabilità. Serviranno nuove risorse per il bilancio nazionale e, quindi, servono anche le entrate (peraltro cresciute del 4,4% nel 2023 appena chiuso), al di là della “grande rinuncia” a ben 600 miliardi della mancata riscossione. La filosofia di Giorgia Meloni la porta a dire che lo Stato «non deve disturbare chi produce ricchezza». Ma l’essenziale è pure che di questo passo non si finisca col creare problemi a chi non ha invece nemmeno lo stretto necessario e ha fortemente bisogno di uno Stato che gli sia “vicino”.