Ansa
Importante intervento della Cassazione a sostegno dell’articolo 603 bis del Codice penale, strumento fondamentale nella lotta allo sfruttamento dei lavoratori. L’articolo, profondamente modificato dalla legge 199 del 2016, la cosiddetta “legge anticaporalato”, è stato spesso bersaglio di attacchi sia politici che di settori del mondo imprenditoriale.
Malgrado sia uno strumento importantissimo per contrastare efficacemente lo sfruttamento lavorativo, sempre pervasivo, come abbiamo denunciato su queste pagine pochi giorni fa. Ma ora la Suprema Corte mette la parola “fine” respingendo «in quanto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale » dichiarando «inammissibile il ricorso» presentato da un imprenditore cinese di Prato condannato per sfruttamento di decine di lavoratori, molti dei quali senza permesso di soggiorno. È una vicenda scoppiata nei primi mesi della pandemia, quando un’inchiesta della procura di Prato ha scoperto un’enorme truffa sulla fornitura di mascherine per 45 milioni di euro. Indagati e arrestati 13 imprenditori cinesi.
Ma si scopre anche che a realizzare i dispositivi erano veri e propri “schiavi”, costretti a turni fino a 16 ore al giorno, uscite di sicurezza sigillate e 10 minuti per mangiare. I laboratori fungevano anche da dormitori, con posti letto/loculi. Scatta l’accusa di sfruttamento, l’articolo 603 bis, e poi il 16 giugno 2021 la condanna. Uno degli imprenditori/ truffatori fa ricorso alla Cassazione chiedendo che sia posta di fronte alla Consulta la questione di legittimità costituzionale. Ma la Corte ha respinto. Un’importante decisione, come sottolinea Bruno Giordano, tra i “padri” della norma, magistrato di Cassazione ed ex direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro, nominato dal governo Draghi e non confermato dal governo Meloni, malgrado sia considerato uno dei maggiori esperti di sfruttamento e sicurezza. « In questi sette anni sono stato “torturato” dalle critiche, anche di colleghi giuristi, circa la violazione del principio di legalità.
Ora la IV sezione della Cassazione ha respinto al mittente tutte queste questioni, chiarendo una volta per tutte che non c’è alcun dubbio sulla legittimità costituzionale dell’articolo 603 bis. Questo ora dovrebbe mettere una pietra tombale sui dubbi e le perplessità che ci sono stati in questi anni». Nella sentenza, depositata lo scorso 7 marzo, la IV Sezione, presidente Patrizia Piccialli, relatore Emanuele Di Salvo, scrive che ratio di reprimere il fenomeno del cosiddetto “caporalato” e di impedire che i lavoratori, e dunque i soggetti appartenenti alle fasce economico-sociali più deboli, possano venire assoggettati a condizioni di sfruttamento». Dunque, aggiungono i giudici, «la risposta sanzionatoria è quindi modellata sulle esigenze di contrasto ad una fenomenologia assai frequente nella prassi, che lede un interesse costituzionalizzato dall’art. 36 della Costituzione e che si iscrive nell’orizzonte più generale della tutela della dignità umana nell’esercizio dell’attività lavorativa, fondamentale momento di esplicazione della personalità dell’individuo».
Parole molto importanti che ben spiegano il particolare rigore della norma. Infatti, aggiunge la Corte, «non può certo ritenersi che le pene comminate dal’l’art. 603 bis siano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità dei reati previsti». E questo «soprattutto in considerazione del persistente dilagare del fenomeno antigiuridico di riferimento e dell’intensa lesività di quest’ultimo». Che si concretizza «nell’assoggettamento a condizioni di lavoro di cui si subisce l’imposizione ». Quindi, conclude la Cassazione, « va dichiarata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale prospettata» e “il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile».