A Montecchio i bambini chiedono il ritorno di Ahmed. Sullo schermo, l’amico mentre gioca a scacchi
«Siamo qui perché alla famiglia di Ahmed la nostra comunità non ha saputo comunicare quanto bella e importante sia stata la presenza sorridente dei suoi bambini». C’era tutta la Montecchio bella l’altra sera al teatro parrocchiale di San Pietro, riunita per «fare qualcosa» per il 12enne nato in Veneto ma figlio di immigrati bengalesi, appassionato di scacchi e di letture, deciso a studiare, profondamente italiano, e per tutto questo improvvisamente portato in Bangladesh con i due fratellini per volontà dei genitori.
«Aiutatemi, mi hanno portato via con l’inganno», ha fatto in tempo a scrivere agli amici dallo scalo di Dubai, poi il silenzio. Un silenzio che ha scioccato i compagni di scuola e gli amici degli scacchi, abituati a vederlo alzare la coppa al cielo.
Sono saliti sul palco uno dopo l’altro i compagni delle elementari, le loro mamme, i maestri di scacchi, i vicini di casa, «non per criminalizzare qualcuno – hanno chiarito – ma per capire che cosa fare perché i nostri tre piccoli concittadini possano tornare».
All’esterno del teatro i lampeggianti blu delle forze dell’ordine, lì a presidiare un evento pubblico con qualche rischio, in realtà dedicato al "Diritto all’infanzia e allo studio secondo la Convenzione Onu". All’interno un clima di sincera partecipazione.
«Chiediamo con forza alle autorità di fare tutto il possibile per sostenere e riunificare questa famiglia», è l’appello delle madri, decise a «tranquillizzare la mamma di Ahmed, dirle che può tornare con i suoi bambini, noi saremo di supporto alla famiglia con la nostra calorosa presenza!».
Ma le autorità cittadine non sono presenti, "a causa di pregressi impegni" il sindaco leghista e l’intera giunta sono altrove.
Le mamme non demordono, andranno «con il cuore in mano» a parlare con il papà di Ahmed rimasto solo a Montecchio, arrivato 23 anni fa ma ancora convinto che lo studio sia perdita di tempo e che suo figlio a 16 anni dovrà lavorare, poi sposare la ragazza bengalese imposta dalla famiglia.
Anacronismi impensabili per bambini cresciuti nella nostra Italia, formati, come Ahmed, sui grandi pensatori della nostra civiltà. «Tu hai compreso che con le loro pagine Emilio Salgari, Luis Sepulveda, Anna Frank, Primo Levi, Isabel Allende, Malala, ci hanno consegnato un’arma molto più affilata della sciabola di Sandokan e quest’arma si chiama istruzione», si è rivolto idealmente al suo giovane amico l’architetto Giancarlo Bertola, l’uomo (padre di un suo compagno alla materna) che gli ha insegnato a leggere e lo ha introdotto nel mondo degli scacchi, almeno fino a quando il piccolo è diventato troppo bravo anche per lui.
«Rendi straordinaria la tua vita, nulla importa se non la tua volontà di riuscire – ha letto Bertola da una lettera che gli aveva scritto a giugno per la promozione alla fine della V elementare –. Se vuoi cambiare il mondo misura le persone dalla grandezza del loro cuore, e porta rispetto per tutti. Sappi che la vita non è sempre giusta e cadrai spesso, ma se ti prenderai qualche rischio, se starai a testa alta quando le cose si fanno difficili, se affronterai i bulli aiutando gli oppressi, la prossima generazione e quelle a seguire vivranno in un mondo migliore...».
Al bambino, che gli mostrava i segni delle botte prese a casa e gli scriveva lettere disperate, chiedeva di continuare a essere «un bravo ragazzo come sei ora» anche se lo avessero mandato in Bangladesh come spesso minacciavano se avesse continuato a ostinarsi con i libri e gli scacchi.
È stato Tommaso, 11 anni, a leggere l’articolo 30 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia: «Negli Stati in cui esistono minoranze etniche, un fanciullo che appartiene a una di tali minoranze non può essere privato del diritto di avere una propria vita culturale...». «Noi siamo piccoli e non capiamo le ragioni dei grandi. Sappiamo solo che ci mancate», ha detto un compagno di classe. «Io ho avuto bisogno di Ahmed e lui c’è stato per me. Ora è lui che ha bisogno di aiuto e dobbiamo cercare di darglielo con tutto il cuore», ha aggiunto un altro.
L’ultima parola è stata di Carmine, 11 anni, che per Ahmed ha creato un video: «Essere fratelli di vita conta più che essere fratelli di sangue. L’amicizia è come il sole, le nuvole possono coprirlo ma non spegnerlo. So che tornerai». Carmine, nato in Ghana, oggi italiano di Montecchio.