domenica 23 gennaio 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
​Non è mai male ricordarlo. Le sentenze si applicano e si rispettano. Soprattutto quando sono definitive. Quando chi è stato condannato (ma anche chi è stato assolto, ovviamente...) è passato davanti a tre "giudici" che hanno, via via, confermato (o bocciato), la tesi accusatoria. Ma se ne può parlare. E qualche volta si deve farlo. E' questo il caso della sentenza della Cassazione che ha definitivamente condannato l'ex presidente siciliano, oggi senatore, Totò Cuffaro. Al di là, vorremmo dire al di sopra, dei fatti specifici per i quali i magistrati, per tre volte, lo hanno ritenuto responsabile di «favoreggiamento della mafia». Questa sentenza, anche se ogni caso penale e a sé, traccia esemplarmente una linea di demarcazione ed  esemplarmente parla al Paese. Lo diciamo anche a costo di passare per inguaribili ottimisti: questo atto solenne e grave, in se stesso e persino oltre le colpe attribuite al condannato, consuma al cospetto dell'opinione pubblica quella "zona grigia" che consentre alle mafie di prosperare, incistandosi sempre più profondamente nel tessuto vivo della società italiana, soprattutto – ma non solo – al Sud. Quella "zona grigia" popolata da coloro che con cosche, clan e 'ndrine sono conniventi o anche solo pacificamente conviventi, da quelli che ci fanno patti e affari, da quanti tradiscono o aggirano le leggi, la fiducia della gente, i valori autentici della nostra cultura nazionale e della fede cristiana. Che le cosche cerchino il rapporto con la politica è fatto ormai acquisito da tempo. Potremo dire almeno da 150 anni, visto che la stessa storia dell'Unità d'Italia è segnata, fin dal suo inizio da più o meno nascoste e indecorose alleanze. Ma è altrettanto noto e provato che settori della politica, ma anche dell'economia e delle professioni, hanno cercato (o tollerato) rapporti con le mafie. Lo dimostrano i "delitti eccellenti", di chi questo rapporto ha respinto e combattuto, da Piersanti Mattarella a Pio La Torre. Ma oggi, più che mai oggi, non ci possono essere alibi. Che la politica debba essere una "casa di cristallo" è un imperativo. «Il sospetto dovrebbe indurre soprattutto i partiti politici quantomento a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti anche se non costituenti reati», diceva Paolo Borsellino il 26 gennaio 1989 parlando agli studenti dell'Istituto tecnico professionale di Bassano del Grappa. La citazione non a è scelta a caso. Per la testimonianza di un martire della lotta alla mafia. Per i destinatari, le giovani generazioni. Per il luogo, una città del Nord. La responsabilità di fare pulizia, di respingere le lusinghe mafiose, è oprattutto – ma non solo – della classe dirigente del Sud. Le cosche da decenni hanno esportato metodi violenti e affari al Nord, ma anche rapporti con la politica, alcuni nati nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa e poi trasferiti, altri frutto di nuove "conoscenze". Con effetti, non poche volte, ancora più deleteri. Basterebbe ricordare che alcuni comuni lombardi e liguri sono all'attenzione del ministero dell'Interno con l'ipotesi di scioglimento per in filtrazione mafiosa. Scarsa attenzione? Sottovalutazione? Comunque tutto questo, al Sud come al Nord, non è né giustificabile né perdonabile. Ci vuole pulizia, pulizia e ancora pulizia. È l'imperativo, e deve esserlo per tutti. Perché se la mafia non ha colore politico la trasparenza non è appannaggio esclusivo di nessunio e nessuno può farne a meno. E con fatti concreti. Non bastano più le belle intenzioni. Per ben due volte, all'unanimità, la commissione Antimafia ha approvato codici di autoregolamentazione per le candidature. Una prima volta nell'ormai lontano 1991, e abbiamo visto cosa è successo dopo... Una seconda volta lo scorso anno in occasione delle elezioni regionali. Ma poi il presidente Beppe Pisanu e il procuratore nazionale antimafia Grasso hanno dovuto denunciare l'incredibile candidatura ed elezione di personaggi collusi e, addirittura, già condannati (alcuni sono poi finiti in galera...). Di parole e proclami non sappiamo che farcene, servono davvero e solo fatti concreti. Ai politici di oggi e a quelli di domani ricordiamo ancora una volta le bellissime parole scritte su un quaderno da un uomo di limpida fede come Rosario Livatino, il "giudice ragazzino" ucciso dalle cosche agrigentine: «Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: