L'arrivo a Roma all'Altare della Patria della salma del milite ignoto - Foto Stato Maggiore della Difesa
Aquileia, 28 ottobre 1921. È una donna a scegliere la salma tra le undici che rappresentavano i diversi fronti su cui l'Italia aveva combattuto il primo conflitto mondiale. Era la madre di Antonio Bergamas, sottotenente del Regio Esercito, originario di Gradisca d’Isonzo, suddito austro-ungarico, che sotto mentite spoglie era passato a combattere con gli italiani cadendo sul campo di battaglia. Cento anni dopo si fa memoria di quel giorno ad Aquileia. Da lì partì il viaggio sulla linea ferroviaria che toccò Venezia, Bologna, Firenze e Roma. Un treno che a velocità moderatissima passava di stazione in stazione dando l’opportunità alla popolazione di onorare il caduto simbolo.
Le undici salme dei soldati da cui Maria Bergamas scelse quella del Milite Ignoto - Foto Stato Maggiore della Difesa
“Fu un giorno necessario. La prima guerra mondiale è stata una guerra di massa che ha prodotto una morte di massa e, di conseguenza, un lutto di massa in milioni di famiglie, le cui coscienze sono state marchiate da un dolore incommensurabile – spiega Luciano Zani, storico della Sapienza Università di Roma -. A questo dolore era necessario dare una risposta e uno sfogo, una ragione e un senso. Il lutto di massa ha generato il culto di massa dei soldati caduti, comune a tutti i paesi coinvolti nella guerra. La sacralizzazione della nazione ha accompagnato la guerra e provato a giustificare i sacrifici fatti per la patria. Quel giorno, e i giorni successivi fino al 4 novembre, sono stati un rito collettivo, preparato e pianificato con cura, ma anche spontaneo e partecipato da centinaia di migliaia di italiani, che resero onore alla bara contenente i resti del milite ignoto, scelto da Maria Bergamas tra undici salme, a nome di tutte le madri e le vedove d'Italia. La scelta di un soldato senza nome, tra i milioni di caduti e dispersi senza nome, fu l'idea che consentì di conciliare il rispetto dell'individualità di ogni singolo soldato e l'impossibilità di restituirla a ognuno di loro”.
Poi il 4 novembre 1921 la salma giunse a Roma, all'Altare della Patria. Tutte le rappresentanze dei combattenti, delle vedove e delle madri dei caduti, con il Re in testa, e le bandiere di tutti i reggimenti mossero incontro al Milite Ignoto, che da un gruppo di decorati di medaglia d'oro fu portato a Santa Maria degli Angeli. Momenti intensi tra culto e memoria che cento anni dopo sottolineano il senso di una celebrazione che si rinnova attorno al monumento dedicato al Milite Ignoto anche in migliaia di Comuni italiani.
“La celebrazione dei soldati morti, con nome e senza nome, nella prima guerra mondiale non dovrebbe soltanto farne il simbolo della morte sacrificale per la salvezza della patria e della perenne resurrezione dei caduti nella memoria collettiva della nazione – prosegue Zani -. La memoria diretta di quegli anni è morta con l'ultimo reduce scomparso. È tempo di dare la parola alla storia. E la storia ci dice che quel rito del 4 novembre 1921 fu purtroppo una parentesi di silenzio, di raccoglimento e di lutto tra due epoche storiche. La prima, con la guerra, segnò il suicidio dell'Europa, soprattutto quella imperiale, e la catastrofe della sua civiltà: una crisi demografica spaventosa, una intera "generazione perduta", circa dieci milioni di morti e un ingente numero di mutilati e invalidi, milioni di profughi e di deportati a causa della ridefinizione dei confini degli Stati; la perdita del primato economico dell'Europa. La seconda epoca – aggiunge lo storico - vide in Italia l'appropriazione indebita da parte del fascismo del combattentismo e dei miti della guerra e della vittoria, la traduzione dell'epopea della trincea in forme violente di politica armata e militarizzata, la rapida torsione dei valori nazionali in nazionalismo estremo fino al trionfo del fascismo con le sue nuove guerre. Allora ogni Comune d'Italia che voglia dare la cittadinanza onoraria al Milite Ignoto dovrebbe parlare ai giovani del sacrificio dei caduti come necessità della pace e non esaltazione della guerra”.
La celebrazione del 4 novembre 1921 all'Altare della Patria - Foto Stato Maggiore della Difesa
Un ricordo, quello dei caduti di tutte le guerre che richiama ad essere "custodi della memoria e costruttori di storia" per citare il 29° Congresso dell'Associazione nazionale reduci dalla prigionia e loro familiari appena concluso a Roma, ma anche un invito rivolto ai giovani per capire il passato e lavorare per il futuro facendo tesoro delle testimonianze dei nonni e dei bisnonni che, come gli IMI, gli internati militari italiani, dopo l’8 settembre 1943 e la firma dell’armistizio, preferirono scegliere la prigionia dicendo "no" al nazifascismo attraverso la loro resistenza senza armi.
“Gli Internati Militari Italiani ci hanno raccontato più volte, nelle loro memorie scritte e orali, che per sopravvivere dignitosamente in un lager non bastano il cibo per sfamarsi e una coperta per difendersi dal freddo” sottolinea Luciano Zani, ma servono "calorie spirituali". Da quelle più semplici e immediate: “Una preghiera come conferma e conforto nella fede, un sorriso o un gesto di solidarietà di un compagno di baracca, la lettura di un libro, l’arrivo di una cartolina o di una lettera dei propri cari” a quelle “più elaborate e complesse, collettivamente pensate e realizzate: la musica, la poesia, la pittura, il teatro, lo sport, il gioco in tutte le sue forme”. Nutrire il cervello, anche se lo stomaco protesta, dice Zani ricordando le sofferenze degli Internati militari italiani, “serve a vincere la spersonalizzazione voluta dai tedeschi, la riduzione a numero e ad arnese da lavoro. Recuperare il passato, Shakespeare, Mozart, nel lager modella un nuovo e diverso presente, che chi avrà un futuro potrà vivere e rivivere come il proprio passato, sottratto al potere dell’indifferenza e della deumanizzazione”.
Lo sa bene Michele Montagano, 100 anni il 27 ottobre, sottotenente degli alpini nei giorni che seguirono l’8 settembre 1943. Il suo “no” a collaborare con i nazifascisti lo portò alla prigionia e all’internamento come gli altri 650mila militari italiani. Oggi il suo ricordo va ai caduti di tutte le guerre e all’importanza “di non dimenticare” chi ha dato la vita per l’Italia.
Michele Montagano, classe 1921, con accanto la figlia durante il 29° Congresso dell'Anrp - Foto Vincenzo Grienti
“In mille occasioni ho raccontato la mia storia che rimane ancora viva nella mia vita, così come su migliaia di altri miei compagni che, come me, hanno condiviso un destino dietro il filo spinato, sottoposti a violenze e umiliazioni e affrontando momenti difficili e molto duri per aver detto NO alla collaborazione con il nazifascismo – ha avuto modo di dire più volte Montagano -. Ogni volta che rendo la mia testimonianza, ci tengo a sottolineare che, pur essendo difficile perdonare, sono riuscito a passare attraverso il tragico mondo concentrazionario senza odiare nessuno, neppure i nazisti, anche se loro, per quasi venti lunghi mesi, hanno cancellato dal consorzio umano il nome del tenente Michele Montagano, sostituendolo con il numero 27539 come IMI e con il numero 370 come politico KZ”.
Nei giorni in cui Montagano compie cento anni cade l’anniversario di Aquileia. Una coincidenza che richiama alla memoria quella “inutile strage” che fu la Grande Guerra, per citare Benedetto XV, e la tragedia della Seconda guerra mondiale che chiamò al fronte Montagano e altri giovani italiani alcuni dei quali non tornarono più. Un insegnamento per le giovani generazioni affinché custodiscano la memoria per costruire la storia futura di un mondo in pace e senza conflitti.