mercoledì 19 agosto 2020
Il caso di una mamma di Bari a cui, nel 2013, è stata tolta la figlia Anita, che da allora non ha più potuto riabbracciare
Una foto di madre e figlia insieme tempo fa

Una foto di madre e figlia insieme tempo fa - Avvenire

COMMENTA E CONDIVIDI

Ogni giorno 63 minori vengono allontanati dalle famiglie per decisione di tribunali minorili o su segnalazione dei servizi sociali. L’Università di Padova parla di 160mila episodi in vent’anni. Dito puntato su altrettanti genitori, quindi, ma la verità è che metà di quei casi sono stati archiviati oppure i presunti responsabili scagionati. Il primo obiettivo è perciò quello di verificare l’operato delle comunità che accolgono. Sono circa tremila, ma il numero esatto non lo conosce nessuno, mentre ancora non esiste un registro ufficiale dei minori fuori famiglia.

L’attenzione e le cure della mamma avevano permesso di cancellare il lieve ritardo espressivo e cognitivo di Anita, o comunque di renderlo talmente irrilevante da trasformarlo in un problema di poco conto. Sono stati necessari sei anni, ma alla fine del 2012 Anita, che all’epoca aveva 10 anni, è una bambina felice, va a scuola, frequenta corsi di nuoto, vive serenamente nella sua casa. Oggi, diciottenne, dopo sette anni trascorsi in una comunità su ordine del tribunale per i minorenni di Bari, la ragazza presenta, secondo le perizie degli esperti, grave «incapacità di intendere e di volere», ha un sussidio di invalidità e non sa quando potrà riabbracciare la mamma che in questi anni è riuscita ad incontrarla con crescente difficoltà.

Ora però che è maggiorenne – sarebbe facile pensare – il problema si potrà risolvere facilmente, perché alla ragazza sarà certamente concesso di tornare in famiglia. Niente affatto. Il tutore nominato dal Tribunale per i minorenni fin dal 2013 ha chiesto e ottenuto per lei un proroga di tre anni per quanto riguarda la permanenza in comunità. E poi, “grazie” a una legge regionale della Puglia a “tutela” delle persone disabili, potrebbe addirittura rimanere fino ai 25 anni. Senza che la famiglia abbia la possibilità di intervenire. Eppure la proroga sarebbe irregolare perché la ragazza ha già trascorso il massimo periodo possibile in comunità, sette anni. E non è prevista alcuna “proroga della proroga”.

Evidentemente a qualcuno conviene che il “rapporto” tra Anita e la comunità non si interrompa. Ma può essere che gli interessi economici prevalgano sul benessere psico-fisico di un minore? Sembra una beffa atroce architettata da qualcuno intenzionato a mettere in cattiva luce il nostro sistema di protezione dei minori fuori famiglia. Invece la storia di Anita è forse la sintesi del peggio, il baratro di assurdità che si può toccare quando la legge va avanti per la sua strada sorda e insensibile a qualsiasi richiamo non solo di umanità, ma anche di giustizia al servizio delle persone. E non il contrario.

Racconta la mamma di Anita, Francesca Lobefaro: «Quando nel 2006 ho vissuto la sofferenza della separazione, il tribunale ordinario mi ha concesso l’affidamento esclusivo della piccola, che aveva 4 anni». Il momento è difficile. Anita ha interiorizzato le gravi tensioni di quei giorni, il clima pesante di violenza che respira in casa. Parla con grande fatica, appare quasi assente. I medici diagnosticano un «lieve ritardo espressivo e cognitivo» che, con le cure adeguate, può esser però recuperato. La piccola frequenta così un centro di logopedia, a scuola è assistita da una maestra di sostegno con cui si crea un ottimo rapporto. La mamma chiede per lei anche un istruttore personale per le lezioni di nuoto. La bambina rifiorisce.

Finché, nel 2012, il tribunale per i minorenni decide, su istanza del padre, di concedere l’affido condiviso. La ragazza rimane collocata presso la madre che due Ctu (consulenze tecniche d’ufficio) disposte dal Tribunale, definiscono «molto attenta ai bisogni della figlia». Eppure, chissà perché, ai giudici non basta. E così, prendendo come motivazione la conflittualità tra i genitori sempre più esasperata, viene nominato un tutore. Nel marzo 2013 arriva anche un provvedimento di sospensione dalla responsabilità genitoriale. Qualche mese, dopo, siamo nel mese di ottobre e Anita ha ormai 11 anni, scatta anche la decadenza.

La piccola in quel periodo si trova ricoverata all’ospedale “Miulli” di Acquaviva delle fonti per una gastroenterite. La sofferenza per la situazione che sta vivendo le causa anche crisi epilettiche. Per prelevarla a forza dall’ospedale, su ordine del tribunale, arrivano polizia, servizi sociali e naturalmente il tutore minorile. Una scena straziante. Ma la “giustizia” fa il suo corso. La bambina - così il giudice ha deciso - non può fare ritorno a casa, con la mamma. Dev’essere ospitata in una comunità.

«Da sette anni – si dispera mamma Francesca – mia figlia vive lì dentro. Il giudice minorile ha disposto che sia assegnata ai servizi sociali di Cassano nelle Murge. Ma evidentemente non è stato fatto tutto quanto sarebbe stato necessario. Il peggioramento è stato evidente. Prima mi era concesso di vederla due volte al mese. E ogni volta potevo verificare quanto fosse evidente il suo declino. Credo anche che assuma molti psicofarmaci». Ma a parere della donna è stata soprattutto l’assenza della figura materna ad aver spento in Anita la voglia di reagire.

«Ho chiesto aiuto al tribunale per i minorenni, ma mi hanno risposto che il caso non era più di loro competenza. Il 27 luglio mia figlia ha compiuto 18 anni e non ho neppure potuto festeggiare con lei». Dal 19 giugno scorso mamma Francesca non riesce più a vedere Anita. Chi l’ha deciso? La comunità stessa, nella convinzione che l’incontro con la mamma sia disturbante per la ragazza. «Ma non è così. Anche stamattina mi ha mandato un messaggio audio in cui mi implora di andarla a trovare. Abbiamo fatto una denuncia per abuso di potere. Ho chiesto l’intervento del ministero della Giustizia. Ridatemi mia figlia, la vita senza di lei è straziante. Non posso pensare che rimanga altri 4 o 5 anni lì dentro».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: