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Giorgio M., origini sarde, laurea in ingegneria elettronica al Politecnico di Torino, è un padre separato che da quattro anni riesce a vedere i figli con enorme difficoltà. Sta male, ha perso il lavoro, ritiene che la sua vicenda sia frutto di un assurdo cortocircuito giudiziario. Il tribunale dei minori di Torino ha deciso di destinare i due figli, prima a una comunità poi a una famiglia affidataria. La madre, origini caraibiche, prima con i due piccoli in comunità, poi in una residenza con la supervisione dei servizi sociali, è stata denunciata per abbandono di minori. Una notte ha deciso di andarsene in discoteca, lasciando i figli a casa da soli. I piccoli si svegliano e vanno a cercare la donna, in strada. Per il procuratore dei minori non c’è nessun dubbio. Devono andare in una comunità. E il padre? E i nonni? Eppure la legge parla chiaro: quando i figli vengono allontanati dalla famiglia d’origine, va innanzi tutto verificata la possibilità di affido ai parenti più prossimi.
Evidentemente, sarebbe la conclusione più ovvia, padre e nonni sono persone su cui non si può contare. Eppure su Giorgio M. non pesa il minimo addebito. Le denunce di maltrattamento presentate dall’ex moglie sono state archiviate perché il fatto non sussiste. E i nonni? Benestanti, istruiti, inseriti nel tessuto sociale della città, lui diacono permanente, lei catechista. Quattro figli, tutti laureati. Sarebbero stati felicissimi di accogliere i nipotini.
Ma il giudice ha deciso diversamente. Sulla base di quali considerazioni? Giorgio lo ignora e nelle sentenze non viene specificato. Per tentare di fare chiarezza ha indirizzato una lettera aperta al presidente del Tribunale per i minorenni di Torino, Stefano Scovazzo, in cui ripercorre la sua vicenda e chiede di 'ripristinare la giustizia' per sé e per i due figli. Racconta il trasferimento dalla Sardegna a Torino per studiare al Politecnico, il suo brillante incarico dopo la laurea in un’importante multinazionale del Torinese, la sua decisione di 'prendermi una pausa' per realizzare il sogno di vivere in un Paese caldo e col mare. Arriva in Centro America, conosce una ragazza di cui si innamora, si sposano e nel gennaio 2012 tornano in Italia. Tutto sembra andare per il meglio. Giorgio è programmatore specializzato, trova in pochissimo tempo un nuovo lavoro. Nascono due figli. Poi tra marito e moglie qualcosa comincia a incrinarsi. È soprattutto la scarsa attenzione verso i figli mostrata dalla donna che preoccupa il padre. La moglie evidenzia 'trascuratezze' che potrebbero rivelarsi pericolose per l’incolumità dei bambini.
Lui le fa notare, lei si infastidisce. Il malessere cresce. In casa ci sono alcune telecamere per il controllo da remoto, piazzate da Giorgio fin dai tempi in cui era studente, dopo un furto subito. Quando lui è al lavoro, lei si rivolge ai servizi sociali riferendo di un 'marito-padrone' che la controlla in ogni istante. «I racconti che andava riferendo, formavano nella mente degli operatori sociali un’idea del classico marito maltrattante e iper-controllante, ma nessuno – scrive l’uomo – ha mai sentito la mia versione dei fatti». Senza possibilità di contraddittorio, le accuse della moglie si cristallizzano come verità assoluta. La donna viene consigliata – come lei stessa riferisce in una dichiarazione che è agli atti – di sporgere due denunce che, secondo i suoi legali, dovrebbero risultare «propedeutiche per avere l’affidamento dei figli». E la situazione va sempre peggiorando. Scrive ancora Giorgio M. al presidente del Tribunale per i minorenni: «Nel gennaio 2016 il giudice mette in comunità protetta mia moglie e i figli solo perché riceve un’istanza urgente secondo la quale io continuavo a tenere le telecamere accese.
Il giudice, senza neanche verificare la veridicità dell’istanza, con un colpo di penna polverizza la mia famiglia». Su quali base? Non c’è nessuna prova di maltrattamento verso la madre e i figli: nessun certificato medico di percosse, nessuna foto di lividi, nessun audio di insulti, nessuna testimonianza, niente di niente. Nel giugno del 2016 la competenza passa dal Tribunale dei minori al Tribunale civile, perché la donna chiede la separazione. E tutto si complica ancora di più, i tempi delle udienze si allungano, la difficoltà per Giorgio di vedere i figli si amplificano.
Ma lui non molla. Pur di non perdere il diritto a quell’incontro settimanale, nonostante abbia perso il lavoro a causa del malessere psico-fisico di cui è vittima conseguente alla pesantissima situazione, decide di fare la spola ogni sette giorni tra la Sardegna e Torino. Eppure, «nel settembre del 2017 con il bene stare dei servizi sociali ottengo la liberalizzazione degli incontri. Unico vincolo era mettermi d’accordo con la madre. In questo periodo ho anche un riavvicinamento 'affettivo' con la madre e comunque la situazione si era completamente rasserenata». Una svolta? No, purtroppo.
Il colpo di testa della madre che, come detto, una notte decide di andare in discoteca lasciando i bambini a casa da soli, fa crollare tutto. I bambini tornano in comunità e la scelta si ripercuote, inspiegabilmente, anche contro il padre. «Illustrissimo Presidente – è l’efficace metafora di Giorgio M. – è come stare a lato passeggero, a fianco di un guidatore ubriaco, gridando 'aiuto aiuto, fatemi scendere', poi il guidatore investe una persona e tolgono la patente a me. Siamo all’assurdo». E una volta ancora «i miei figli subiscono l’ennesimo trauma, separati di nuovo da me e, questa volta, anche dalla madre, passati da una comunità ad una famiglia affidataria. Eppure i nonni, che hanno sempre tenuto i contatti con i nipoti, potevano essere destinatari di un affidamento temporaneo». Ma il giudice, come detto, decide diversamente e allora i nonni, decidono per l’appello «essendo intangibile – spiegano gli avvocati – il diritto del minore a mantenere rapporti significativi con gli ascendenti così come previsto non solo dalla normativa nazionale ma dalla Convenzione europea e dalla Corte europea». Con quali risultati? Nessuno finora. Il tempo scivola via con due bambini convinti che la mamma e il papà – su cui, ripetiamo, non pende alcuna accusa – li abbiano abbandonati per sempre. Chi ripagherà la famiglia di tanta sofferenza?