Il giorno dopo l'acqua alta, si cerca di ripristinare l'attività (Ansa)
Quando il buio annuncia un’altra sera di quiete bugiarda, l’improvviso ululato delle sirene promette una sinistra notte di luna piena e acqua alta. La cronaca del naufragio può solo peggiorare. Le vedute settecentesche del Canaletto hanno lasciato il posto alla visione di una catastrofe hollywoodiana: vascelli scaraventati contro i palazzi, orpelli architettonici precipitati nei canali, portoni scardinati da una furia selvaggia, cortili affogati in una palude salmastra.
È Venezia ma sembra Atlantide, la città perduta negli abissi, trasformata dalla violenza di un tifone da 100 chilometri orari in un vecchio galeone semiaffondato. Rilette oggi le parole di Thomas Mann somigliano a un presagio: «Quest’era Venezia; beltà lusingatrice e ambigua, racconto di fate e insieme trappola per forestieri». Ma Venezia, si sa, è la Fenice. Così il labirinto di calli e campielli che oggi pare disastrato, già riprende vita tra le braccia acerbe e generose dei suoi 'angeli della bellezza', ragazzi cresciuti tra le gondole o venuti qui a studiare da ogni parte d’Italia e del mondo. La maggior parte di loro non ha galosce né guanti da lavoro, ma dall’alba raccolgono qualunque oggetto rischi di andare perduto, foss’anche un souvenir spazzato via da un negozio di pro- prietà cinese.
E accade che i veneziani di ieri e quelli venuti ad abitare qui dal lontano Oriente si ritrovino insieme, il gondoliere Bebi e il bottegaio Xiao, che dopo essersi guardati in cagnesco per anni finiscano dalla stessa parte del canale: «Per salvare Venezia», dicono. I Vigili del fuoco e la Protezione civile non riescono a essere dappertutto. Non è facile dispiegare forze in massa in una città dove si arriva solo per mare. Ci vorrebbero i mezzi e i plotoni di uno sbarco in Normandia per assediare Venezia di soccorsi e soccorritori. Ma è impossibile. Un miracolo che sia tornata l’elettricità, anche per ricaricare i telefoni e far ripartire internet.
Senza rete non ci sarebbe stata 'Venezia Calls', il gruppo nato sui social per arruolare volontari e dispiegare forze in tutta la laguna. Merito del passaparola tra i giovani che sui social network hanno organizzato l’eroico intervento che in sole tre ore, per dire, ha permesso di asciugare la chiesa dei Carmini, mentre sul ponte dell’Accademia venivano ammassati i rifiuti poi caricati sul battello spazzino, cominciando a liberare la città dalle ostruzioni che rallentano il deflusso del mare. Dalla storica Libreria Toletta hanno dovuto buttar via quintali di libri. «Nel giro di un paio d’ore la città è stata totalmente sommersa – racconta Stefano, milanese di vent’anni venuto a studiare arabo ed ebraico a Ca’ Foscari –. Ci siamo organizzati passandoci le informazioni via smartphone e così corriamo dove è più urgente».
Tra una calle che ora gronda acqua salata e uno spiazzo ricoperto di fanghiglia, si vede la pancia di una barca scura che lentamente viene sbatacchiata dal moto ondoso. Da lontano pare un capodoglio esausto, finito in una trappola senza uscita. Per ore Venezia si veste da museo subacqueo. Come se per tanta bellezza niente fosse davvero irrimediabile. Il murale di Banksy, che raffigura un bambino migrante nel vento impetuoso di uno sbarco con il giubbotto di salvataggio e con in mano un razzo fluorescente, è finito per buona parte sott’acqua. Il writer aveva rivendicato su Instagram la paternità dell’opera, facendo schizzare alle stelle in valore dell’edificio, in parte fatiscente, su cui era stata apposta.
Dicono sia tutta colpa degli sperperi e dei ritardi per realizzare il Mose. «Ma il Mose non è 'in' ritardo. Il Mose è 'il' ritardo», denuncia l’intellettuale e politico veneziano Gianfranco Bettin, secondo cui l’opera «è l’errore storico che, con la prepotenza, con la corruzione, con l’insipienza, è stato imposto alla città, evitando perfino di verificare le praticissime alternative esistenti, più semplici, più efficaci, che avrebbero da anni già messo Venezia in sicurezza, senza sprecare tempo e una montagna di soldi, soprattutto senza farle correre i rischi mortali che sta correndo, che ha vissuto, di nuovo, in questa notte tragica». Venezia, per chi ci vive, è soprattutto quotidianità.
Lo racconta la vetrina del supermercato dietro a San Marco che pare sopravvissuto a un terremoto. Ironia della malasorte, è rimasto in piedi solo il triangolo giallo che avverte del pericolo caduta, dopo che gli addetti alla pulizia avevano passato la cera... In terra è una distesa di panettoni, tagliatelle, pomodori in scatola. Anche trovare da mangiare, a Venezia, è un problema. E chi, in casa, aveva sistemato le provviste al piano terra adesso raccoglie solo poltiglia. Come uno spirito maligno l’acqua è entrata al buio, all’inizio senza far rumore, passando sotto le porte e poi prendendosi ogni centimetro, affogando ogni mosaico. Fino a crescere e mulinare travolgendo persone e cose. In una chiesa dopo il demone della Laguna sono arrivati gli 'Angeli della Bellezza', i ragazzi che hanno visto un Cristo come lo avrebbe raccontato Dalì in uno dei suoi schizzi veloci. Riverso in terra, spinto a faccia in giù con il volto immerso e le braccia inchiodate ancora fuori dall’acqua. Quando lo hanno issato al suo posto, ripulendolo dai residui salmastri, si sono messi a fissarlo. E tutti, in quel preciso istante, hanno capito che anche stavolta Venezia risorgerà.