Matteo Renzi fa un passo indietro, dopo aver concesso l’onore delle armi: la sua battaglia in Parlamento sarà di retroguardia, e i suoi candidati – che Pier Luigi Bersani avrebbe "ridotto" al 12-13 per cento del totale – non saranno quasi certamente espressione di un "marchio" per connotare l’altra faccia del Pd. Dopo la conferma avuta dal leader democratico di non poter contare sulla stessa percentuale ottenuta alle primarie, il sindaco rottamatore lascia campo più o meno libero al vertice del partito, impegnato in quello che per tutti gli schieramenti è da sempre il momento più duro e drammatico, ovvero la formazione delle liste dei candidati. Aver vinto le primarie, infatti, non basta: molto dipende dalle regioni e dalle posizioni nell’elenco in cui sarà altissima la rappresentanza femminile. E resta aperta fino all’ultimo – tanto da giustificare il condizionale in queste ore – la partita per entrare nel listino blindato, con cui sarà eletto il 30 per cento degli esponenti di largo del Nazareno.
Renzi, dunque, non farà guerra al segretario, evitando che i suoi elettori vengano tentati dalla formazione di Monti. Ma molti dei suoi – già in gran parte fatti fuori nelle "parlamentarie" – rischiano di restare a casa. E ieri, nel vertice-fiume del comitato elettorale in attesa delle direzioni regionali di oggi e domani e di quella nazionale di martedì, sono state proprio le linee dei renziani a scontrarsi. Da una parte il delegato del sindaco Graziano Delrio (che tratta con i bersaniani Stumpo, Migliavacca e il veltroniano Minniti), intenzionato a trovare anche candidature di alto profilo più autonome, dall’altra la scelta renziana di privilegiare i fedelissimi, che non lo espongano nelle future battaglie parlamentari. Oltre alla cinquantina di vincitori delle primarie, dovrebbero entrare dunque nel listino bloccato i fiorentini Bonafè, Boschi, Bonifazi e Lotti. Tra i parlamentari uscenti, hanno un posto garantito Gentiloni, Realacci, Ferrante, Della Seta e Scalfarotto. Per i veltroniani, che hanno sostenuto Renzi, certa anche la candidatura di Giorgio Tonini, mentre è a rischio proprio Roberto Reggi, braccio destro del sindaco che durante le primarie ha insistito molto sui cavilli regolamentari, al cui posto potrebbe essere ripescato Stefano Ceccanti, pure uno dei più esperti costituzionalisti in quota Veltroni, che altrimenti sarebbe silurato.
I nodi si scioglieranno solo lunedì, ma Anna Finocchiaro, al lavoro con Bindi e Franceschini e i colonnelli di Bersani, si dice certa che per il Pd è un punto d’onore arrivare per primo con le liste pronte. Ore convulse, dunque, anche se «i criteri» sono ormai definiti. Così come si riempiono le caselle dei capilista, con i fiori all’occhiello di Bersani (ieri l’arrivo dalla Confcommercio Luigi Taranto): Piero Grasso nel Lazio, il filosofo Cassano in Puglia, e via con i big Bindi in Calabria, Letta in Veneto, Franceschini in Emilia Romagna, Andrea Orlando in Liguria, Damiano in Piemonte, Fioroni in bilico tra Sicilia e Lazio.