Non hanno avuto scampo. Con le pistole puntate alla testa, messi sul gommone con onde fino a due metri, erano morti in 117. Carne da cannone per la guerra dei libici all’Europa, chiamata a saldare le promesse in denaro attraverso i notabili delle milizie che oramai ricattano l’Ue anche a colpi di barconi. Era il 18 gennaio. Per quella strage adesso la Procura di Roma indaga a carico della centrale di coordinamento dei soccorsi italiana, che a causa di reiterate decisioni politiche potrebbe essere caduta nella trappola di Tripoli. I pm di piazzale Clodio hanno avviato un procedimento a carico di ignoti.
Si ipotizza il reato di omissioni in atti di ufficio. L’inchiesta è stata aperta dopo che sono arrivati dalla Procura di Agrigento i rapporti dei magistrati siciliani che avevano avviato l’indagine sulla strage, nata dopo i racconti degli unici tre superstiti sbarcati poi a Lampedusa. Gli inquirenti agrigentini erano arrivati a parlare di omissione di soccorso, provocata dallo scaricabarile tra Roma e la cosiddetta Guardia costiera libica. Tutto comincia la sera del 18 gennaio.
A 50 chilometri a nord di Tripoli un aereo da pattugliamento marittimo P72 di stanza a Sigonella avvista un gommone semiaffondato con aggrappate decine di persone. L’equipaggio dell’Aeronautica, dopo avere allertato i soccorsi, a causa delle pessime condizioni del mare aveva sganciato due zattere di salvataggio, abbandonando poi l’area per rifornirsi di carburante e poi torna- re sulla scena. Intanto il cacciatorpediniere 'Duilio' della Marina (che si trovava a oltre 200 chilometri di distanza) aveva ordinato il decollo del proprio elicottero SH 90 per inviarlo sul luogo del naufragio.
Ed è qui che con un’operazione spettacolare vengono recuperati gli unici tre superstiti, in ipotermia: uno issato tra le onde e due da una delle zattere di salvataggi. Gli investigatori siciliani, che hanno trasmesso ai colleghi di Roma gli atti per competenza territoriale, hanno ottenuto e incrociato anche le comunicazioni di AlarmPhone, l’organizzazione che riceve e inoltra alle centrali di soccorso le richieste di aiuto dei migranti, e quelle di Sea Watch.
Di ritorno da un volo di ricognizione, Moonbird (l’aereo dell’Ong Sea Watch) aveva intercettato «via radio un avvistamento da parte di un velivolo italiano di un gommone parzialmente affondato» con circa «25 persone a bordo e altre già in acqua. Un mercantile si trovava nelle vicinanze, ma non risulta un intervento ». Era stato l’allarme lanciato dalla stessa Sea Watch su Twitter aggiungendo di aver contattato l’Mrcc Italia ( Maritime rescue coordination centre) che «rifiuta di dare informazioni» sostenendo che 'la Libia è responsabile del caso'.
«Tuttavia – aveva proseguito l’Ong – la comunicazione con gli ufficiali libici risulta impossibile in nessuna delle seguenti lingue: inglese, francese, italiano, né arabo». In un terzo tweet l’organizzazione non governativa tedesca ha quindi riferito che, «in assenza di informazioni su un’eventuale operazione di soccorso, la propria nave Sea Watch 3 aveva deciso comunque di fare rotta verso il punto di naufragio, nonostante fosse distante oltre 10 ore di navigazione». La Guardia Costiera italiana ha precisato poi di aver «immediatamente verificato che la Guardia Costiera libica fosse a conoscenza dell’evento in corso all’interno della sua area di responsabilità Sar, assicurando alla stessa la massima collaborazione».
«Alla Ong Sea Watch, che intercettata la notizia dell’avvistamento, aveva contattato la Centrale operativa della Guardia Costiera italiana dando la propria disponibilità a partecipare alle operazioni di soccorso – si legge in una nota da Roma – è stato comunicato che la loro disponibilità sarebbe stata offerta alla Guardia Costiera libica, quale autorità coordinatrice dell’evento».
La coincidenza, non la prima, tra le 'avarie' ai mezzi libici e le rischiose traversate imposte dai trafficanti, ha provocato quasi 117 morti. A cui bisogna aggiungere i quasi 30 cadaveri recuperati nel Golfo della Sirte solo a gennaio. Anche di questo dovranno occuparsi i magistrati. Ma non solo. Sempre a Roma, intanto, rischiano di finire sotto processo due ufficiali della Marina per il naufragio di una imbarcazione di siriani avvenuto l’11 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, in acque maltesi, nel quale morirono circa 300 tra adulti e bambini. La Procura di Roma – come già reso noto alcuni mesi fa – ne ha chiesto il rinvio a giudizio in quanto ritiene gli ufficiali responsabili di aver colpevolmente ritardato l’intervento della nave militare italiana Libra.
*** AGGIORNAMENTO DEL 7 FEBBRAIO 2019
La Procura chiede l'archiviazione
La Procura di Roma ha chiesto l'archiviazione del fascicolo aperto per omissione in atti di ufficio a seguito del naufragio del 18 gennaio. La decisione è legata, si apprende da fonti giudiziarie, al fatto che la prima sala operativa ad aver ricevuto notizia della presenza di un gommone in difficoltà a 48 miglia dalla costa è stata quella libica che ha avuto notizia di quanto stava avvenendo poco dopo le 13.30. Le verifiche effettuate dagli investigatori coordinati dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal pm Sergio Colaiocco hanno dimostrato che la sala operativa della Guardia costiera italiana ha ricevuto notizia dell'evento solo alle 14.21. In base alle convenzioni internazionali la responsabilità del soccorso spetta alla prima sala operativa che ha notizia dell'evento e la Guardia costiera italiana ha avuto conferma dai libici, alle 14.37, che già si erano attivati per intervenire. La guardia costiera italiana ha cooperato provvedendo a dare l'allarme a tutte le navi del Mediterraneo con mezzi di cui la Guardia costiera libica non ha disponibilità, mentre la motovedetta inviata da Tripoli sul posto tornava indietro, alle 15.25, per problemi tecnici.