(Reuters)
La voce dall’altro capo del ricevitore è colma di gioia. «L’ambasciata italiana di Kabul ha concesso il visto a mia mamma. Può andare a ritirare il passaporto e poi raggiungermi in Italia». Madina (nome di fantasia, ndr), fatica a trattenere la propria felicità. Dopo un’odissea durata più di due anni sua madre, minacciata di morte dai talebani per averla protetta da un matrimonio forzato, potrà chiedere asilo in Italia. «La mamma all’inizio non mi credeva, pensava che le stessi facendo uno scherzo – racconta Madina, contattata telefonicamente da 'Avvenire' –. Sono contentissima. E ringrazio di cuore l’ambasciata per l’aiuto. Lunedì abbiamo portato gli ultimi documenti richiesti e mercoledì mi hanno chiamato per dirmi il visto era stato rilasciato ». Ora resta solo da compiere l’ultimo passo. «Mia mamma non ha mai preso un aereo ed è un po’ preoccupata – dice –. Chiederò a un parente di accompagnarla in aeroporto e fare una prima parte del viaggio con lei. Poi andrò a prenderla per accompagnarla in Italia». Una storia a lieto fine, dopo tante sofferenze e traversie burocratiche. Madina vive in Italia da più di dieci anni e sta per laurearsi.
A spronarla negli studi è stata la madre: «Mi diceva: devi studiare per non dipendere da un uomo», racconta la ragazza, la cui vita subisce una scossa improvvisa nel 2013 quando dall’Afghanistan arriva la notizia che la jirga (il consiglio degli anziani) del villaggio ha deciso di darla in sposa a un uomo sconosciuto per sanare una faida tra le due famiglie. Madina, però, non vuole sposare quell’uomo molto più anziano di lei e già padre di sette figli. I suoi genitori si schierano immediatamente al suo fianco e alla richiesta della jirga rispondono con un netto 'no'. Una decisione che costa loro minacce, ritorsioni e la fuga dal villaggio. Madina nel frattempo chiede asilo politico in Italia. È il novembre 2013 e, appena ottenuti i documenti, avvia le pratiche per chiedere il ricongiungimento con la madre che nel frattempo è rimasta vedova.
La prima richiesta di visto (malgrado il nulla osta della Prefettura) viene rigettata dall’ambasciata nell’agosto 2015. Madina, oltre al legame di parentela, infatti deve provare che la madre è a suo carico: lei invia regolarmente soldi in Afghanistan, ma non ha mai usato il money transfer, preferendo la mediazione di persone di fiducia per non esporre la madre a rischi inutili: per una donna sola e perseguitata viaggiare per il Paese e raggiungere Kabul è praticamente impossibile. È una corsa contro il tempo. Assistita dall’avvocato Francesco di Pietro, Madina presenta una nuova domanda di nulla osta alla Prefettura e una nuova richiesta di visto. Tra i fogli, anche le ricevute del money transfer. Questa volta la domanda viene accolta. «All’interno di un sistema in cui il diritto d’asilo deve essere chiesto a nuoto, per usare le parole del sindaco di Lampedusa Giusy Nicolini, il fatto che una mamma perseguitata dai talebani riesca a entrare in Italia con un visto per ricongiungimento familiare è una conquista per il diritto alla vita e per la dignità umana », commenta Di Pietro, membro dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). «Non possiamo che essere contenti per la conclusione della vicenda», commenta Anna Meli, direttrice comunicazione del Cospe, ong italiana che in questi mesi è stata accanto alla mamma di Madina, mettendola in contatto con una donna avvocato e accompagnandola in ambasciata.