mercoledì 24 aprile 2024
Il racconto di Noam (israeliano) e Loai (palestinese) e di Sabina (russa) e Kateryna (ucraina) dallo studentato di Rondine (Arezzo)
Un momento dell'incontro di Rondine

Un momento dell'incontro di Rondine - .

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«Sono in perfetta sintonia con Loai… ». Non ci sarebbe di che stupirsi se un ex studente israeliano, Noam, rivela più volte davanti alla platea che lo ascolta di essere d’accordo con un coetaneo. Se non fosse che Loai è palestinese e siede accanto a lui. Anche Sabina, ragazza d’origine russa, confida: «Ormai non posso più pensare una giornata lontana da Kateryna». Kateryna, la giovane ucraina che la scruta a meno di un metro di distanza.

Voci di pace fra nemici.

O meglio, fra coloro che la storia e gli ultimi due conflitti su cui si concentrano l’attenzione e le preoccupazioni del mondo vorrebbero divisi dalle trincee. E, invece, eccoli accanto. Uniti dal grido che Loai riassume in una frase: «Non vogliamo vivere in Paesi in guerra». Come oggi lo sono Israele e Palestina, Ucraina e Russia. Quattro giovani che hanno «il coraggio», come loro stesso ammettono, di schierarsi «contro l’odio» e di testimoniare che «si possono avvicinare i popoli» che la geopolitica etichetta come contrapposti, sostiene Noam. Ambasciatori di fraternità che raccontano il loro “sogno” in Palazzo Vecchio a Firenze, sede del municipio. Parole di «amicizia», ripetono, che scuotono il salone dei Cinquecento dove i dipinti alle pareti dicono tutt’altro: sono scene di battaglia firmate da Giorgio Vasari.

Ad abbattere i muri del pregiudizio e della discordia è stata Rondine-Cittadella della pace, il laboratorio della riconciliazione alle porte di Arezzo che fa vivere fianco a fianco ragazzi di nazioni in conflitto. Come Sabina e Kateryna, entrambe alle prese con il loro cammino di formazione nello studentato internazionale. O come lo sono stati Noam e Loai, il primo rimasto a Rondine, l’altro tornato in Palestina dopo aver concluso il suo percorso nella Cittadella. Ad accoglierli a Firenze il sindaco Dario Nardella e a dialogare con loro Agnese Pini, direttore del Quotidiano Nazionale. L’occasione è il lancio della campagna “Il vero nemico è la guerra” per finanziare altre due borse di studio a Rondine. «È necessario trasformare il dolore in fiducia, perché la fiducia fa arretrare l’odio», afferma il fondatore della Cittadella, Franco Vaccari.

«La guerra corrompe l’anima – sostiene Noam –. Non siamo più in grado di sentire la sofferenza dell’altro. Così siamo meno umani. E così giustifichiamo le morti e la distruzione reciproca». Parla della strage del 7 ottobre in Israele come di un «incubo che continua a straziarmi», ma ammette anche che «la rappresaglia di Israele su Gaza mi tormenta». «Siamo due popoli – dice Loai –. C’è bisogno di accettare e sapersi accettare. C’è bisogno di perdonare e di sapersi perdonare. È il tempo del dialogo». Glielo ha insegnato Rondine. «Nonostante tutto, i nemici storici possono diventare amici». Anche perché, aggiunge, «c’è un’intimità unica fra nemici: solo il nemico può capire il mio dolore».

Racconta «i lutti e la distruzione» dell’Ucraina sotto le bombe Kateryna, laureata in scienze politiche. Ma anche le sue «profonde ferite». Tanto che, quando è arrivata a Rondine poco dopo l’inizio dell’invasione voluta da Putin, «mi sono rifiutata di parlare con le ragazze russe: vedevo solo il loro passaporto, non la persona». Finché Sabina non le ha confidato di voler partecipare a una marcia per la pace. «Quando dico di essere russa – sostiene la studentessa che ha una laurea in pedagogia e lingue –, vengo identificata fra gli aggressori. Tutto ciò peserà per generazioni». Uno stigma. «Eppure non ho mai considerato nessuno come nemico. Ma adesso sono io a essere ritenuta un nemico». Effetti perversi della logica delle armi. Che uccidono anche la speranza. «Non credo nella diplomazia ma nelle relazioni fra le persone», avverte la giovane russa. Più possibilista Noam. «Un accordo di pace non è l’obiettivo finale, ma il primo passo. Perché occorrerà riconciliare le genti». Ed è Kateryna a indicare l’urgenza di «tendere la mano per un nuovo inizio». Quello dell’era della pace.

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