Reuters
C’è una classifica in cui l’Italia sta scivolando lentamente verso il basso in un misto di rassegnata disperazione, inerzia e senso di impotenza. È quella della risposta alla pandemia virale. Va detto che il nostro Paese non è solo, anzi, ma questo non è per niente consolante, è in numerosa e sorprendente compagnia, in un club di Paesi democratici occidentali le cui classi dirigenti sono ancora in una fase pre-contemplativa, a vantaggio dei pochi Paesi che hanno preso in mano in modo risoluto la questione e che oggi vedono i propri cittadini più tranquilli dal punto di vista sia sanitario sia economico e psicologico.
Se escludiamo la Cina, per la mancanza di dati ufficiali affidabili e le peculiarità politiche del Paese, e prendiamo in considerazione gli elementi che veramente contano, e cioè il numero dei casi confermati, il totale dei morti, i test effettuati e i casi confermati in rapporto al numero di test eseguiti, la nostra posizione diventa sempre più critica. E questo, anche in previsione della probabile diffusione di varianti virali più contagiose, è una pessima notizia sia per la salute sia per l’economia.
In cima a questa ideale classifica vi è la Nuova Zelanda, seguita da Vietnam, Taiwan e Australia, ma ben figurano anche Corea del Sud e Singapore. Sono paesi in cui, al di la delle mascherine, la vita oggi scorre pressoché normale, le attività produttive marciano, bar, ristoranti, musei, cinema e teatri sono aperti, la gente è più fiduciosa sul futuro.
Il contrasto è stridente con i peggiori: Brasile, Messico, Colombia, Stati Uniti e Bolivia, ove il numero di malati aumenta vertiginosamente e risulta difficile persino seppellire i morti.
In una posizione intermedia, ma tendente al peggioramento, vi sono tutti gli altri, con performance negative dei grandi Paesi europei, Gran Bretagna, Germania e Francia in testa, seguiti, appunto dall’Italia. I primi due sono ormai in lockdown da tempo e non prevedono di uscirne prima di marzo, mentre il Governo francese è incoraggiato dai suoi scienziati a farlo quanto prima per riportare l’epidemia sotto controllo ed evitare l’arrivo delle nuove varianti.
In Italia la crisi di governo produce un ulteriore indebolimento di una catena di comando già frammentata e, se non risolta rapidamente, determinerà un pericoloso stallo che non consentirà di invertire la curva epidemica e costringerà il Paese a una prolungata precarietà, sia sanitaria che economica.
Il tutto è peggiorato dal deterioramento nelle capacità di testing che, già eterogenea tra le Regioni, invece che aumentare sta drasticamente diminuendo. È come se in una navigazione insidiosa in un mare in tempesta il comandante anziché accendere fari più luminosi li spegnesse: non passa molto tempo in genere prima di una pericolosa collisione.
Così, mentre altri Paesi stanno cercando di serrare le fila, anche con misure dolorose e impopolari, il nostro, su dati del tutto sottostimati, discute su riaperture che potrebbero essere propedeutiche a una ulteriore pericolosa fase epidemica. E la rotta di navigazione diventa ancora più insidiosa se a questo aggiungiamo la lentezza con cui l’Agenzia italiana del farmaco sta gestendo la partita degli anticorpi monoclonali, che Germania e Ungheria, oltre che Canada, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno già acquistato, e che le evidenze scientifiche ci dicono ridurre drasticamente l’aggravamento della patologia e le conseguenze mortali.
Ancora, la questione vaccini. Il miracolo dell’identificazione di un vaccino anti-Covid a meno di un anno dall’isolamento del nuovo coronavirus non significa automaticamente che esso produca un’immunità di popolazione se la campagna di vaccinazione di massa non viene adeguatamente organizzata e gestita. Sarà lo sforzo professionale e logistico più poderoso nella storia dell’umanità: deve avere un adeguato numero di vaccini e di vaccinatori ma, soprattutto, un’adeguata leadership a esso totalmente dedicata. Non è un caso che in Israele e negli Stati Uniti ciò sia stato affidato a persone con consolidata esperienza oltre che in campo scientifico anche in operazioni militari, perché di questo si tratta se si vogliono (e si devono) vaccinare centinaia di migliaia di persone al giorno per molti mesi.
In ultimo, ma non per importanza, la scuola. L’Italia è stata il primo Paese a chiudere le scuole e uno degli ultimi a riaprirle e poi però a chiuderle di nuovo, esemplificando nel modo più emblematico la confusione decisionale che la caratterizza.
La sicurezza nelle scuole è possibile solo se persistono alcune condizioni sia all’esterno che all’interno degli edifici scolastici. Se applicando sistematicamente protocolli rigorosi su distanziamento fisico, mascherine e igiene degli ambienti le attività scolastiche possono svolgersi in sicurezza, altrettanta attenzione va posta ai trasporti. Già a luglio, avevamo avvertito che era necessario non derogare al riempimento massimo del 50% per garantire un adeguato distanziamento fisico tra i passeggeri, ma ci fu risposto, in particolare dai presidenti delle Regioni, che questo non era possibile per mancanza di mezzi pubblici. Obiettammo che sarebbe stato il caso di potenziare gli investimenti nel settore e avvalersi di mezzi privati che peraltro nel frattempo, soprattutto quelli turistici, erano fermi.
Pochissimi enti locali lo hanno fatto. Raccomandammo di scaglionare gli ingressi e le uscite da scuola, in modo da evitare affollamenti e conseguente rischio di contagio, ci fu risposto che gli orari sfalsati avrebbero reso la vita degli studenti impossibile.
In sostanza, la ripresa delle scuole a settembre fu caratterizzata dal paradosso che i ragazzi si affollavano nei mezzi pubblici, per il cui potenziamento non era stato fatto praticamente nulla, dove alcuni di loro, ovviamente, si infettavano, poi andavano a scuola dove erano prontamente identificati e mandati a casa dove spesso trascorrevano il periodo di infettività per poi tornare a scuola dopo aver avuto un accertamento di negatività. In questo momento riaprire le scuole mentre si diffonde la variante britannica del virus sarebbe l’iceberg che fa affondare il Titanic. Non credo ce lo possiamo permettere.