Un fermo immagine diffusa dalle autorità giudiziarie sul caso Avellino - Ansa
Sono trascorsi quarantatrè anni dall’intervista in cui Enrico Berlinguer, conversando con Eugenio Scalfari, metteva a fuoco la madre di tutti i guai della politica nostrana. « La questione morale è il centro del problema italiano», ammoniva l’allora segretario del Pci, e «non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera». Fatta la tara del diverso contesto storico e politico, quelle riflessioni tornano attuali in questo semestre elettorale, che culminerà nelle Europee di giugno. Una fase incandescente, arroventata quotidianamente da inchieste e scandali lungo la Penisola, che tratteggiano lo spaccato di una classe amministrativa, regionale e comunale, ancora incline a favori, clientelismi e intrallazzi, quando non a relazioni pericolose con la malapianta mafiosa. Non pare dunque peregrino ragionare di una nuova “questione morale”, per dare un nome e cognome allo spettro che si aggira nelle segreterie dei partiti, turbate da questo tsunami giudiziario a più ondate, capace di scompaginare liste elettorali e strategie politiche, di disfare intese e di mettere in ambasce tanto il centrodestra che il centrosinistra. C’è chi la chiama “variabile giudiziaria”, che i postulatori di letture dietrologiche continuano a ritenere “a orologeria”. In realtà, nei meccanismi di lavoro delle procure, i tempi di chiusura di un’indagine sono determinati da fattori contingenti. Resta comunque il fatto che, una dopo l’altra, le scosse giudiziarie stiano destabilizzando gli assetti locali di forze politiche da anni alle prese col nodo dei criteri di scelta della classe dirigente. Già perché il caso di Avellino è solo l’ultimo macigno di una slavina in corso da fine febbraio. Nel centrosinistra, chi poteva immaginare - dopo la vittoria del campo largo targato Todde in Sardegna - che su altri tentativi di cooperazione piovesse una doccia fredda di arresti e dimissioni? In Puglia, prima è scoppiata l’inchiesta della Dda di Bari (nella cui rete è finita Maria Carmen Lorusso, consigliera comunale eletta con una lista di centrodestra ma passata a sostenere il sindaco dem Antonio Decaro), quindi altre due indagini hanno prima coinvolto e fatto dimettere l’assessora regionale in carica Anita Maurodinoia, e poi un altro ex assessore regionale, Alfonso Pisicchio, finito ai domiciliari insieme al fratello per un presunto giro di corruzione. Un terremoto che ha rotto l’idillio con M5s, che ha tirato fuori dalla giunta regionale la sua assessora Rosa Barone, e indotto la segretaria dem Elly Schlein a chiedere al governatore Michele Emiliano non solo un rimpasto, ma un cambio di rotta nella scelta dei profili. L‘altra scossa è arrivata dal Piemonte, dove un’inchiesta sulla ‘ndrangheta nel Torinese ha messo in luce presunti scambi di favori dell’ottantenne esponente dem Salvatore Gallo, indagato per peculato, determinando la scelta del figlio Raffaele, non indagato. di rinunciare alla candidatura dem alle regionali. Ma «se Atene piange, Sparta non ride...», si mormora in maggioranza, perché l’inchiesta che portato alla sospensione del vicepresidente della Regione siciliana Luca Sammartino ha agitato il Carroccio. Proprio la sua parabola politica è rivelatrice del cardine della questione, visto che era stato capace in più consiliature regionali e cambiando casacca (Udc, Pd, Italia viva e infine Lega) di spostare di qua e di là decine di migliaia di preferenze. Al netto delle difese d’ufficio in nome del «garantismo», c’è chi assicura che il caso abbia accresciuto i malumori dei dissidenti leghisti verso il segretario Matteo Salvini per essersi messo in casa «certa gente». Anche dentro Fdi, dove il caso della ministra Santanché ha scosso partito e governo, si conta un episodio locale: a Palermo è stato sospeso dal partito un ex consigliere comunale arrestato in un’indagine su presunte compravendite di voti e mafia. Insomma, l’agitazione è trasversale. E in Transatlantico più d’uno confida di alzarsi ogni mattina, un po’ come accadeva durante Tangentopoli, col timore che qualche nuovo blitz giudiziario costringa il suo partito a rifare le liste. Soprattutto, al di là delle responsabilità penali, «l’elemento che accomuna gli episodi di questi mesi è la spregiudicatezza, miscelata a un trasformismo senza rossore», argomenta il segretario del Pd siciliano Anthony Barbagallo, descrivendo «forze politiche disposte a imbarcare trasformisti, signori delle preferenze e satrapi di consorterie nelle amministrazioni comunali», che rappresentano «il terreno ideale in cui attecchisce la pianta della corruzione». Non sarà il j’accuse berlingueriano, ma è un’analisi che traccia il profilo, appunto, di una questione morale che i partiti - per ora focalizzati solo sul problema del come rattoppare giunte e liste senza dilapidare voti - non dovrebbero ignorare, pena la perdita di consenso e un’ulteriore crescita dell’astensionismo.