Oltre cento studenti al "Viaggio della Memoria" organizzato dal ministero dell’Istruzione in collaborazione con le Comunità ebraiche. I ragazzi che hanno raggiunto la Polonia sono stati scelti con le loro scuole per aver realizzato i migliori progetti didattici sul tema della Shoah
Sono oltre cento gli studenti partiti domenica da Roma verso la Polonia per l’annuale Viaggio della Memoria organizzato dal ministero dell’Istruzione con la collaborazione dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, per commemorare le vittime della Shoah. I ragazzi hanno ascoltato le testimonianze di chi ha vissuto la tragedia dell’Olocausto, hanno visitato i luoghi dove i fatti sono avvenuti, si sono interrogati su quello che è stato, affinché non accada mai più. Una 'due giorni' emozionante guidata dalle sorelle Andra e Tatiana Bucci, sopravvissute ad Auschwitz e testimoni dell’Olocausto e dallo storico Marcello Pezzetti.
È una mattina gelida. Andra Bucci cammina a passi lenti lungo i binari sporcati dalle neve. L’immenso campo di Birkenau fa ancora paura. A sinistra c’è il filo spinato. A destra, le baracche costruite dai prigionieri di guerra sovietici sono ancora in piedi. C’è silenzio. Andra chiude gli occhi e torna indietro di settantacinque anni. L’arresto nella casa di Trieste. I primi giorni di prigionia nella Risiera di San Saba. La deportazione. Il viaggio interminabile verso la Polonia. «Quattro giorni senza mangiare. Il bagno era un secchio. Qualcuno alzava una coperta per regalarci una punta di privacy». Poi l’arrivo a Birkenau. Andra fermo lo sguardo su un carro bestiame immobile sulle rotaie. «Arrivammo su uno proprio così. Saltai giù dal vagone senza guardare. Un salto alto, troppo alto per una bambina di quattro anni... Ogni tanto chiudo gli occhi e sono qui. Mi restano immagini 'spezzate'. La gente si cercava, si chiamava. Lo faceva a voce alta, quasi strillando. C’erano i cani che abbaiavano e i tedeschi con le divise di pelle...». Era il 4-4-44, il quattro aprile del 1944. Con Andra c’era la mamma e Tatiana, la sorellina due anni più grande. Laggiù nascosto dalla nebbia c’è un caseggiato di mattoncini. «Ci fecero spogliare. Ci tagliarono i capelli. Ci diedero tre vestitini. Poi ci scoprirono il braccio destro e ci tatuarono un numero. 76483... Quel giorno ci separarono dalla mamma. Quando la rividi, qualche settimana dopo, aveva già cambiato aspetto. Rapata. La faccia scavata. Mi faceva quasi paura». Andra torna alle 'sue' cinque cifre. Le ripete quasi meccanicamente: 76483. «Non ho mai pensato di toglierle. Di cancellarle. Di nasconderle. Quel numero fa parte di me. È mio. Ogni tanto lo tocco. È il segno che ce l’ho fatta...».
232mila bambini sono entrati ad Auschwitz Birkenau, ma solo cinquanta sono sopravvissuti. E se Andra e Tatiana ora sono qui a raccontare è perché le scambiarono per gemelline: 'merce rara' per gli esperimenti del dottor Mengele. Per cinquant’anni la storia delle due sorelle Bucci è rimasta solo la loro storia. Poi, nel 1994, hanno deciso di fare, fino in fondo, i conti con l’Orrore e di raccontarla allo storico Marcello Pezzetti. L’anno dopo tornarono a varcare il filo spinato di questo campo che non ha mai restituito nove persone della loro famiglia. Da allora sono tornate a Birkenau ventinove volte. Spesso con gruppi di studenti. Siamo a Cracovia. In un salone di un hotel alla periferia della città. Anche questa volta Andra è tra i giovani. Per riflettere sugli Orrori di ieri e per capire se il passato è davvero passato.
Una ragazza di Varese le si avvicina e accorcia le distanze dandole del tu: Andra dove va il mondo? «Il mondo va dalla parte sbagliata. C’è egoismo. Disprezzo. Tante volte c’è odio. Tutto gira attorno ai soldi. Tutti vogliono risultati subito. La politica spesso sbanda e i giovani...». Si ferma. Sorride malinconica. «Voi non potete deludere». Oggi Andra vive in America. Guarda i nipoti crescere. Con la fiducia che possano saper sempre coniugare parole come tolleranza e mettere da parte parole come sopraffazione. E poi guarda il mondo. Con passione e con pena. Quando si sveglia legge sull’iPad i giornali italiani. «Non è mai una bella lettura», confessa sottovoce. E poi pensa alla sua nuova vita. E alle sue responsabilità. «Io che ho vissuto quella pagina orribile, non posso sopportare, non posso stare in silenzio...».
Marcello Pezzetti è al suo fianco. Ora tocca a lui legare Ieri e Oggi. «...Non possiamo sopportare che tanti migranti muoiano in mare perché scappano dal loro Inferno».
Lo storico si ferma su quella parola. Quasi a voler traccia una riga che unisce Presente e Passato. «Hanno il diritto di venire e noi abbiamo il dovere di non impedirglielo. Non possiamo cavarcela con un ignobile scaricabarile. Quello che sta succedendo si affronta con comprensione, non con superficialità».
Proviamo a capire. E a farlo ci aiuta Carlotta Picco. Sedici anni. Un volto impertinente. Viene da Chiavari. Frequenta l’istituto Giovanni Caboto. Hanno vinto loro il premio pensato da Miur e Comunità ebraiche. L’idea era mettere sotto la lente di ingrandimento i discorsi di Liliana Segre, senatrice a vita e testimone dei campi di concentramento. Di analizzare parole come Reclusione, cenere, giusti. Parole 'nuove' per un ragazzo di sedici anni. Carlotta sembra però più grande. «C’è sempre la tentazione di trovare un 'nemico'. Oggi sono loro. I migranti. Sì, sono loro i nuovi perseguitati. È così, oggi i campi di concentramento sono in Libia. E poi la politica... Perché non è riuscita a coniugare accoglienza e integrazione? Perché non è riuscita a spiegare che i migranti sono una risorsa e invece ha creato le condizioni perché venissero percepiti come un problema?».
Poco lontano Marcello Pezzetti riflette a voce alta sull’equazione ebrei-migranti. I perseguitati di ieri e quelli di oggi? Lo storico tira fuori un racconto privato per spiegare. «Ho passato anni dell’infanzia a Torino. Mamma mi portava a vedere le case con orribili cartelli sulle entrate: 'qui non si affitta ai meridionali'. Poi mi portava alla stazione di Porta Nuova. Guardavamo questa umanità che arrivava dal Sud. Ricordo le valigie legate con la corda. Mamma mi diceva: 'Marcello, questi nessuno li vuole, ma hanno fatto grande Torino'. Aveva ragione. Tutti i genitori dovrebbero insegnare una cosa semplice: mai rifiutare, mai respingere, mai emarginare. È questo l’antitodo ai muri di Trump, ai fili spinati di Orban, ai rigurgiti di xenofobia che scuotono il mondo...». Da Birkenau ad Auschwitz sono una manciata di chilometri. La prima immagine è un cancello e una scritta. Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi. Un messaggio beffardo, di scherno: qui tutti erano pezzi da usare, da esaurire, da gettare. Non è una visita. È più un pellegrinaggio. Gli studenti camminano silenziosi. Spesso con gli occhi bassi. Marcello Pezzetti racconta ancora orrori. «Nelle camere a gas per eliminare gli ebrei veniva usato l’acido cianitrico, quello che si usa per disinfestare i vestiti ed eliminare i pidocchi ». «Per i tedeschi gli ebrei erano cadaveri in vacanza. Gli uomini pesavano mediamente 42 chili e le donne 29». Lo storico usa un linguaggio crudo. Gli studenti si guardano in silenzio. Qualcuno entra nel blocco 11. Nella cella numero 18 tanti rosari sono appesi a tre grandi ceri. Era la cella di padre Massimiliano Kolbe, il prete santo polacco che decise di dare la sua vita per salvare quella di un compagno di prigionia. Venne rinchiuso con altri condannati senza cibo. Non chiedeva nulla. Non si lamentava. Restava appoggiato alla parete e pregava. Tanti uomini cominciarono a morire. Dopo due settimane erano vivi solamente in quattro. Tra questi padre Kolbe. Nel campo si parlava di miracolo. Era troppo per i tedeschi. Padre Massimiliano venne ucciso con una iniezione di acido fenico al braccio sinistro. E mentre moriva recitava l’Ave Maria. Era il 14 agosto del 1941.
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