Un tragedia immensa quella dei tredici amici e fratelli sconosciuti venuti da lontano e morti nell’angoscia perché forse buttati a mare, perché comunque i testimoni li hanno visti vivi e poi annaspare tra le acque, morti solo qualche metro prima della terra ferma o anche sulla spiaggia. E con loro tanti altri: sbarcati, fuggiaschi, tutti fin dall’inizio aiutati, vestiti, voluti bene dalla gente che, consapevole o meno, ha così accolto Dio. Sconosciuti nei particolari, queste tredici persone sono, nella luce di Dio, conosciuti profondamente: sono nostri fratelli! Ci sentiamo interpretati da un’anziana donna che per tutta la giornata è andata ripetendo: “Tutti figghi ri mamma, tutti figghi ri mamma” (tutti sono, tutti siamo figli di una mamma). E questo ci impone il dovere di piangere questi morti, di piangerli come fratelli. Lo farà Scicli e anche lo faranno città vicine con il lutto cittadino e con una celebrazione di suffragio. Ma, dopo averli pianto, dovremo anche di ri-cordarli, dovremo portarli al cuore, al centro della nostra vita. La tragedia si è consumata mentre sono ospiti della Caritas di Noto due piccole sorelle di Gesù venute a nome delle altre per una parola di conforto ai profughi che sbarcano sulle nostre coste, parlando una di loro l’arabo e permettendo così di sentire il calore della propria lingua e dell’amicizia. E ci siamo accorti che spesso i tanti migranti non sanno nemmeno dove sono perché manca quest’accortezza, o forse è meglio dire, questa risposta ad una necessità umana. Non manca il cibo, non mancano impegno e generosità, spesso però manca una relazione vera, una relazione che conforta. Che nasce dal capire e dal farsi capire. Peraltro una cosa ci stanno comunicando, anche quando i giornalisti li intervistano: non sono venuti per restare in Italia, vogliono spesso ricongiungersi con amici o parenti nel Nord Europa. E ascoltando scopri tanta dignità, tanto dolore, tanti affetti spezzati e sogni infranti; scopri la gravità e disumanità di guerre che non ci sarebbero se non fossero alimentate da giochi dei potenti e dalla vendita delle armi. Ricorderemo allora con verità i nostri fratelli morti, questi tredici e tanti altri, se ci faremo carico dei problemi del mondo e rinnoveremo un convinto e corale impegno per la pace e per la nonviolenza. Come uomini e come cittadini di un’Italia che ripudia la guerra. Come cristiani, che avvertiamo in questi fatti una visita di Dio: il Dio che ama Lazzaro, il povero mendicante, ovvero il Sud del mondo che mendica alla tavola di un Nord del mondo che, anche se in crisi, resta ricco. Il Dio che verrà a giudicare questo mondo e userà come criterio l’amore e l’accoglienza. E il cerchio di ragazzi egiziani l’altro giorno attorno alla suora che parlava la loro lingua ci è sembrato rinnovare quel parlare agli uomini nella loro lingua che è stato tipico di Gesù di Nazaret, Dio-con-noi, mentre il grazie ad Allah per l’accoglienza, che man mano si dà per come si può, ci ricorda come siano in gioco le nostre relazioni più profonde: con gli altri, con noi stessi e con Dio. Non sappiamo quali passi ulteriori si possano fare. Sappiamo che non vogliamo e non dobbiamo dimenticare i morti, che dobbiamo soccorrere i vivi e ridirci cosa vale veramente.