Un operatore sanitario a Lampedusa con una piccola migrante appena sbarcata e la mamma - Reuters
Un conto sono le parole, un altro i fatti. La svolta in direzione militare annunciata dal governo sulle migrazioni provoca nella società civile, insieme a un sentimento di protesta, anche un misto di stupore e rassegnazione. Sarà davvero così? Arriveranno centri di trattenimento gestiti dalla Difesa, con periodi di detenzione sempre più lunghi? E come si attuerà, in mare, il piano di blocco navale rilanciato dalla premier?
Se le domande sono queste, e si moltiplicano di ora in ora, è perché nel frattempo l’esecutivo aveva lasciato inevasi altri progetti, annunciati e mai attuati finora, dagli hotspot regionali all’accoglienza diffusa. In questo anno abbiamo visto infatti molte dichiarazioni roboanti e poca concretezza, tanto che la macchina organizzativa dello Stato è andata in crisi, e non da oggi.
Per dirla con Filippo Miraglia, coordinatore del Tavolo Asilo che mette insieme realtà laiche e cattoliche impegnate nell’accoglienza, «adesso si sta alzando sempre di più l’asticella in nome della propaganda, ma sotto non c’è niente. Gli arrivi numerosi di questi giorni non sono diversi da quelli che registrammo nel 2015-2016, eppure oggi tutto il sistema è sull’orlo del fallimento. Vuol dire che le misure prese finora non sono servite».
Quel che impressiona maggiormente, sentendo associazioni e organizzazioni non governative, è la complessiva nostalgia per la missione “Mare Nostrum”, voluta dal governo Letta dopo il naufragio di 368 persone al largo di Lampedusa il 3 ottobre 2013: si mobilitarono mezzi militari e umanitari, soprattutto si riuscirono a salvare oltre 100mila persone in poco più di un anno. «Il modello migliore resta senza dubbio quello – osserva il vicepresidente delle Acli, Antonio Russo – perché si chiese alla Marina di intervenire e soccorrere, aiutando chi scappava da fame e guerre.
Il blocco navale? Per noi è la strada sbagliata, il Mediterraneo è già uno dei mari con la maggior presenza di mezzi militari. Se si vuole spostare semplicemente la frontiera dalla terraferma all’acqua, si commette certamente un grave errore». Perché in altre situazioni non ha funzionato, basti pensare a quanto è accaduto al confine tra Messico e Stati Uniti, dove piattaforme e maggiori controlli di polizia per bloccare i passaggi dei migranti in mare si sono rivelati del tutto inefficaci.
«È evidente che in questi dieci anni c’è stata anche una responsabilità europea non esercitata - continua Russo - ma bisogna anche prendere atto che la politica di esternalizzazione delle frontiere ha prodotto esattamente questo risultato. Con l’aggravante di aver cercato un’intesa con la Tunisia che è stata boicottata per prima da alcuni Paesi e da alcune forze politiche, innanzitutto a Bruxelles».
Il Tavolo Asilo mette l’accento su un altro aspetto destinato a far discutere: i rimpatri. Ecco allora spiegato il ruolo dell’Esercito e il segnale lanciato sui tempi lunghi di permanenza e detenzione nei centri, fino a un periodo di 18 mesi. «Si replica semplicemente quello che fu fatto da Roberto Maroni, senza successo, diverse legislature fa - sottolinea Miraglia -. Un ampliamento dei posti e dei Cpr non ha mai modificato di una virgola l’efficacia dei rimpatri, che da tempo sono sempre quelli: si fanno dai 4.500 ai 5mila allontanamenti l’anno, non di più, e tutto viene legato ad accordi bilaterali. E poi, siamo così convinti che riportare un migrante nelle galere egiziane di al-Sisi sia giusto?».
Secondo padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, «del discorso fatto da Meloni, la parte condivisibile riguarda il fatto che ci vogliano tempo e pazienza per governare fenomeni epocali. Ma se Lampedusa è diventata un imbuto, come dimostrano le scene di questi giorni, è perché si è rinunciato a fare missioni di salvataggio, come quando si decise di fare “Mare Nostrum”».
Serve tempo, appunto, per ricostruire una politica migratoria degna di questo nome. E poi sembra «mancare la volontà, tutti insieme, di voler affrontare il fenomeno dal punto di vista delle persone che scappano».
È il punto di vista dei profughi, degli ultimi, quello che manca. «Hanno diritti come gli altri, la loro posizione va valutata secondo quanto stabilito dalle commissioni territoriali - spiega il vicepresidente delle Acli -. Il paradosso è che noi diciamo di aiutarli a casa loro, quando spendiamo sempre di meno per la cooperazione internazionale...»
In tutto questo, la parte legata all’accoglienza e all’integrazione viene del tutto messa da parte, quasi fosse altro. L’obiettivo è stanziare risorse e uomini per prevenire ad ogni costo degli arrivi, dimenticando ad esempio l’esperienza positiva dei corridoi umanitari come strumento di ingresso legale. «La realtà è che lo Stato continuerà a spendere, anzi spenderà di più» sintetizza Miraglia. Neppure il decreto flussi rientra in questa partita perché, come ricordano le Acli, «di fatto i numeri previsti sono insufficienti e poi il provvedimento è una specie di condono, serve solo a regolarizzare chi è già qui».
Rimane la sensazione di uno scenario sempre più cupo, dove inevitabilmente si finirà per fare distinzione tra persona e persona. «L’anno scorso, il nostro Paese ha dimostrato di poter ospitare e inserire, per quanto possibile, circa 170mila persone in fuga dalla guerra in Ucraina, mentre sbarcavano altre decine di migliaia di profughi - riflette padre Ripamonti -. Abbiamo così affrontato una grande crisi umanitaria mettendoci anche nei panni dell’altro. Lo stesso dovrebbe accadere ora, con i fratelli che arrivano dall’Africa. Altrimenti il rischio è di mandare un messaggio sbagliato all’opinione pubblica: che esistano migranti di serie A e migranti di serie B».