L’alto reticolato divide in due gli esseri umani del campo profughi: al di qua quelli che hanno il permesso di giocare e cantare con la chitarra di Elia, al di là quelli che possono solo guardare da fuori, le mani aggrappate alle sbarre. «Finché non abbiamo iniziato a tirare il pallone al di sopra del recinto, e loro ce l’hanno rimandato indietro»: il reticolato diventava rete. Il muro era caduto.
Tutto questo e molto altro è successo i giorni scorsi dentro il campo di Pournara, Cipro, il limbo in cui duemila immigrati sopravvivono convinti di essere in Europa (e geograficamente lo sono), in realtà aggrappati a uno scoglio da cui non sanno più ripartire.
«Pournara è il campo profughi più grande dell’isola – spiegano i nove volontari dell’associazione Papa Giovanni XXIII di don Benzi, da poco rientrati dalla missione –: siamo partiti, su invito della Nunziatura Apostolica e del Patriarcato di Terra Santa, per dar seguito alle parole pronunciate un anno fa da papa Francesco proprio durante la sua visita ai disperati di Cipro. Metà di noi veniva dall’Italia, gli altri dalla Grecia, e avevamo i permessi per entrare solo nel settore delle minorenni, ma i primi ad abbattere il muro sono stati i bambini», quelli che sorridono con niente nonostante l’indecenza che li circonda.
«Il campo di Pournara è diviso in settori – spiega Fabiola Bianchi, 45 anni di Siena, da anni ad Atene come mamma di casa famiglia con suo marito Filippo –. Il peggiore è quello dei single man, gli uomini soli, relegati nel degrado più assoluto». L’odore è acre in tutto il campo, ma tra le tende dei single man l’aria è irrespirabile per la mancanza di gabinetti. Più fortunate, le ragazzine vivono in container, hanno perfino un container-bagno dotato di doccia. «Col passare dei giorni le mani che si aggrappavano al reticolato non erano più solo di bambini», dice Mariaserena Bonassi Del Poggetto, volontaria ad Atene nella casa famiglia di Fabiola, «pian piano sono arrivati gli adulti, il loro bisogno più evidente era di essere considerati, sono persone che hanno fame di relazione, prima che di cibo».
Il flusso di immigrati a Cipro è iniziato dieci anni fa e tuttora prosegue con 1.500 arrivi all’anno, un’umanità di disperati che si accumula, spinge, attende il lasciapassare per “l’altra” Europa, la terraferma. Ormai sono in 30mila nei campi di “accoglienza” dell’isola, sono somali, afghani, siriani, pakistani, nigeriani, arrivano dalla Turchia con un improbabile “visto universitario” a bordo di un volo “interno”, che infatti li sbarca nella parte turca dell’isola (occupata nel 1974 dalle truppe di Ankara) poi passano facilmente il confine con la repubblica di Cipro, Europa. Lì restano invischiati anni ad aspettare il verdetto di una richiesta di asilo che non si sa come andrà a finire: nel 2022 per 3.200 di loro si è conclusa con un diniego e il “rimpatrio”, che spesso significa essere esclusi anche dal campo e nascondersi illegalmente.
Nei giorni passati a Pournara dai nove volontari, molti sono i volti rimasti impressi, sguardi indelebili che non si possono abbandonare. «Presto la Papa Giovanni XXIII tornerà e prenderà in carico la casa famiglia per minori non accompagnati ora gestita dalle bravissime suore di San Giuseppe – assicurano –. E poi lo abbiamo promesso a loro, che torneremo». «Io l’ho promesso ad Amina, 12 anni, bimba afghana – afferma Fabiola –, la prima ad aver “abbattuto” la gabbia. Tutti i giorni portava i suoi tre fratellini in quel mondo dei balocchi che dovevano sembrarle i giocattoli e i pennarelli colorati che avevamo con noi, la mattina alle 9 era già lì, col fratellino più piccolo sempre al collo, “vi stavo aspettando”, ed era l’ultima a riaccompagnarci al cancello al momento di andar via. Quando si è resa conto che al fratellino davamo un’occhiata noi, si è ripresa l’infanzia, anche lei poteva giocare».
È afghano anche Rashid, 28 anni, single man laureato in lingue, la sua tenda affogata nel fango: «Ci ha invitati a entrare – continua Fabiola – non ne avevamo il permesso, ma potevamo dirgli di no? Il tanfo era soffocante, a terra c’erano dodici materassi, eppure Rashid era radioso: era arrivato da un giorno, ancora non sapeva cosa lo aspettava, si sentiva in Europa. Era sicuro che con la sua laurea il mondo libero presto gli avrebbe dato un lavoro». Nel regime dei talebani la moglie e i due figli attendono di raggiungerlo, «allora i miei bambini andranno a scuola come i vostri e mia moglie vivrà senza la colpa di essere una donna», sogna Rashid. Dalla Somalia invece è scappato Hassan. Poi è scappato anche dal campo di Pournara, insieme ad altri sette minorenni. Era l’inverno di un anno fa: li hanno trovati le suore di San Giuseppe addormentati sulla neve davanti al monastero e da allora sono rimasti lì, nella casa famiglia che in futuro sarà gestita dalla Papa Giovanni XXIII. «Abbiamo festeggiato i 16 anni di Hassan», dice Mariaserena, ne aveva 15 quando è arrivato da Mogadiscio. Suo padre era morto da anni il giorno in cui un gruppo armato è entrato in casa e ha ucciso sua mamma, poi ha stuprato sua sorella. La chitarra di Elia ha ammansito i suoi fantasmi e Hassan per qualche giorno è tornato a cantare.
«A me è rimasto nel cuore Ayman» interviene proprio Elia Vargiu, sardo, il più giovane tra i volontari della Papa Giovanni XXIII. Ayman ha 18 anni, potrebbe essere lui, solo che è nato in Siria e da Aleppo è fuggito dopo che una bomba ha centrato la sua casa uccidendo entrambi i genitori mentre era a scuola. «Con gli occhi che si riempivano di lacrime mi raccontava quanto fosse bella la sua Siria prima della guerra. Poi la Turchia, dove ha dovuto lavorare in una fabbrica tessile con una paga da miseria», in seguito l’attraversamento della frontiera che spacca in due Cipro, e la segregazione da single man dentro Pournara. «L’ultimo giorno mentre ci abbracciavamo ci ha ringraziati per averlo ascoltato». Elia è un «figlio di Comunità», i suoi genitori 26 anni fa, appena sposati, hanno aperto la loro casa ai meno fortunati, in particolare a bambini con gravi disabilità. «A cinque anni ascoltavo i racconti dei missionari di ritorno dall’Uganda, sognando di fare lo stesso. Nell’ultimo anno ho trascorso sei mesi sull’isola greca di Lesbo con Operazione Colomba, il corpo nonviolento della Papa Giovanni XXIII, poi sei mesi nella missione di Baghdad, dove la comunità di don Benzi sta aprendo una casa per bambini disabili in un Paese in cui la disabilità è causa di disprezzo, ora ho detto il mio sì alla Chiesa di Cipro e sono arrivato a Pournara, dove le persone hanno la sola colpa di desiderare una vita come la nostra».
Nelle orecchie ha ancora la voce metallica dell’altoparlante che talvolta chiama alcuni nomi, sono i fortunati che in quel momento ricevono il via libera per l’Europa, ma anche il silenzio che ogni volta cala tutto intorno nell’attesa di sentire il proprio nome. «Quante delusioni… Provavo a immedesimarmi in loro e sentivo su di me la violazione della dignità umana».
Il momento più intenso è stata la Messa concelebrata nel cuore del campo da monsignor George Panamthundil, incaricato d’affari della Nunziatura Apostolica di Cipro, dal vicario del Patriarca latino di Gerusalemme Bruno Varriano, dal parroco don Theodoros e da don Luca Morigi della Papa Giovanni XXIII. «I profughi si affacciavano incuriositi, poi in molti restavano. I bambini? Letteralmente si ammassavano sull’altare» ride Fabiola. Ora è tornata ad Atene, nella casa famiglia che chiama “un porto di mare”: hanno quattro figli – racconta – tre naturali dai 5 anni in su, più una figlia “di cuore” che ha 18 anni e ne aveva 5 quando è arrivata con loro. Poi ci sono una mamma del Kenya con due bambini, un ragazzo afghano di 18 anni, una signora polacca di 50, e al piano di sopra tre famiglie, una eritrea, una del Congo e una afghana, più un single man africano.
Tutto è iniziato tanti anni fa in Brasile, dove “per caso” Fabiola e Filippo hanno incontrato don Benzi. «Il Signore sta bussando al vostro cuore» ha solo detto don Oreste. «Noi a Siena avevamo due contratti a tempo indeterminato ma come coniugi ci stavamo interrogando sul nostro futuro. Ci siamo licenziati: e a tempo indeterminato abbiamo aperto le nostre vite».