Mario Morcellini - Siciliani
Siamo di fronte a una fase di «recessione morale» che deve interrogare in profondità le moderne società occidentali. Secondo Mario Morcellini, sociologo e professore emerito di comunicazione, «dobbiamo chiederci come mai comportamenti come quelli legati all’antisemitismo o all’islamofobia arrivano alla superficie. L’intolleranza è spesso frutto del disordine informativo. Intolleranti sono coloro che sono a corto di argomenti, che si accontentano degli slogan. E una vicenda come quella mediorientale si presta a una polarizzazione senza precedenti, dove la negazione dell’altro sembra mettere in discussione le basi stesse della democrazia».
A chi si riferisce in particolare?
Penso a Israele, che ha un diritto che le deriva dalla storia a vedere riconosciute le proprie idee: l’Occidente, se vogliamo usare questa definizione, ha sempre bisogno di avere un supplemento di carità intellettuale quando guarda a Israele. Detto questo, la strategia di Bibi Netanyahu in questa guerra va proprio nella direzione sbagliata: sta cadendo nella trappola della risposta immediata, dell’inseguimento sul suo terreno a un avversario, Hamas, che è invece smisuratamente ispirato al male. Israele avrebbe bisogno di tempo per metabolizzare quanto è successo il 7 ottobre, invece la postura del suo leader sembra assetata di sola vendetta, quasi a far dimenticare che non è stato in grado di garantire sicurezza ai suoi cittadini. Per questo, alla fine si vede che c’è una netta frattura tra il popolo e il suo leader, proprio mentre l’opinione pubblica mondiale che sta seguendo e tifando per la liberazione degli ostaggi, si rende conto che Israele stessa sta sprecando una grande occasione: quella di dimostrare che la democrazia è più forte dell’orrore e del terrorismo.
Dall’altra parte, la causa palestinese sembra essere in grado di riunificare il mondo musulmano, nonostante l’orrore di Hamas.
Sul tema della Palestina, ci sono diverse risoluzioni dell’Onu che parlano chiaro. Non occorre aggiungere altro, se non che la controffensiva militare deve rispondere a principi di proporzionalità che salvaguardino il diritto alla vita delle popolazioni civili, a partire da Gaza. Alla fine della guerra ci saranno solo macerie ed è qui che torna in gioco il ruolo della democrazia e dell’informazione. Non si impara mai dalle emergenze precedenti: l’11 settembre aveva creato il genere della “narrazione del male”. Stiamo attenti adesso a farne un’apologia.
Sta dicendo che alla base dei risorgenti fenomeni di intolleranza, che si tratti di antisemitismo o di islamofobia, c’è un forte deficit informativo?
Esattamente. L’intolleranza, di norma, aumenta con la disintermediazione e con il disordine informativo. Se si riuscisse a ridurre la circolazione di notizie prive di una firma, si potrebbero recidere le basi dei negazionisti dell’una e dell’altra parte e avremmo abbassato l’area dell’intolleranza. L’ignoranza ha bisogno di messaggi semplificati e se crescono negazionisti e intolleranti, è l’ora di un esame di coscienza per tutti, dai giornali alle università. I fatti di guerra sequestrano l’attenzione dell’opinione pubblica e in questa fase il rischio per il giornalismo italiano, con le dovute eccezioni, è quello di naufragare nella narrazione e nella cronaca, mentre il pubblico ha diritto ad essere accompagnato nella riflessione e nella contestualizzazione dei fatti.
Estremisti a parte, il resto dell’opinione pubblica come sta vivendo questa guerra?
Complessivamente, siamo in tempi di recessione morale. C’è una grande difficoltà nell’adottare un punto di vista aperto e moderno, autenticamente tollerante. In tempi di chiusura, significherebbe iniziare ammettere il diritto a esistere dell’altro. La chiusura, invece, squalifica il prossimo, perché lo nega e neppure lo raffigura. Dobbiamo cominciare a chiederci perché la modernità che tanti intellettuali auspicavano abbia portato alla fine a risultati così disastrosi.