Sono 120 i rifugiati accolti in tre anni dalle famiglie del progetto Welcome Refugees Italia
«Eravamo preoccupati che i bambini non riuscissero ad abituarsi a una persona nuova in casa, invece l'hanno fatto, più naturalmente di noi. Poi ci chiedevamo cosa avrebbero detto i vicini. Ma la dolcezza di Mamadou ha conquistato tutti. Volevamo dare ai nostri figli un esempio, educarli all'umanità. E ci siamo riusciti». Beppe e Michela hanno due bimbi, Giosué e Leonardo. E forse è più per loro che per il nuovo arrivato che hanno decisio di fare posto nella loro casa di Cuneo a questo giovane africano. Che non ha rinnegato al sua storia e la sua identità. Ma si è aperto al confrtonto e al dialogo: «Mamadou ha partecipato alla comunione di mia nipote. Lui stava facendo il Pamadan, avrebbe potuto venire solo alla cerimonia e andarse. Invece è rimasto ore a tavola con noi per onorare la festa. Ormai Mamadou fa parte della nostra vita».
La storia di Beppe, Michela e Mamadou è una delle 120 belle esperienze di accoglienza e integrazione che Refugees Welcome Italia da tre anni stimola e sostiene. Il volto di un'Italia accogliente e generosa, che ultimamente sembra essere sparita sotto le urla e le chiusure di una xenofobia rabbiosa e miope. Ma c'è, e continua a seminare umanità. Attualmente sono 31 le convivenze in corso, di cui 8 sono diventate a tempo indeterminato. L'associazione ha presentato un primo bilancio sociale della sua attività da cui emerge fuori che le regioni che hanno accolto di più sono il Lazio e la Lombardia, mentre la città più ospitale è stata Roma, con ben 30 convivenze attivate. Le persone accolte sono per la maggior parte titolari di protezione umanitaria (58%), seguiti da rifugiati (20%) e titolari di protezione sussidiaria (16%): mediamente erano in Italia da quasi 3 anni al momento dell'inserimento in famiglia. E fa ben sperare che il dato sulle 1.196 famiglie che hanno registrato la loro disponibilità sulla piattaforma di Welcome Refugees.
Problemi culturali? «Dobbiamo ricordarci di avvisare Sahal se c'è qualcosa con carne di maiale a pranzo - dice Laura Pinzani che ha accolto un giovane somalo - ma abbiamo ricevuto tanto e riceviamo tanto da lui. Culturalmente, per noi è un arricchimento. Volevo che mio figlio conoscesse persone che non hanno avuto le possibilità e la spensieratezza con cui è cresciuto lui e come crescono la maggior parte dei ragazzi italiani. E si rendesse conto della fortuna avuta a nascere da questa parte». Sahal Omar è felice, ha trovato un piccolo lavoro, e a casa Pinzani sperimenta, dice, una "normalità". Ma non è un ospite: lui come Laura hanno siglato un accordo di convivenza. È quella l'idea nuova che ha trovato tanti attivisti non solo in Italia d'accordo: per garantire un migliore inserimento dei rifugiati nella società, per una vera integrazione sociale una vita in famiglia è una giusta partenza per cominciare vivendo la quotidianità. Le linee guida - ossia i modi per convivere, l'abbinamento fra rifugiati e famiglie - sono la parte innovativa del progetto di Refugees Welcome potenzialmente replicabile in altri contesti: convivenze solidali, madri sole, padri separati, persone con bisogni complementari.
«Le linee guida rappresentano una doppia sfida: la prima alle istituzioni che hanno la governance delle politiche di accoglienza e del welfare, senza le quali nessuna pratica può essere messa a sistema, la seconda al variegato mondo del Terzo settore», racconta Fabiana Musicco, presidente dell'associazione che è apartitica ma anche sull'onda del dl Salvini e in generale per le politiche italiane sui migranti ha visto negli ultimi mesi aumentare le richieste di famiglie di accogliere. Una sana reazione di anticorpi soidali a un brutto virus che serpeggia per il Paese