venerdì 1 aprile 2016
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ROMA Dagli Usa non piovono parole e sentenze, ma silenzi. Nessun commento pubblico del premier, nessun riferimento nemmeno velato al caso del giorno. I tentativi dello staff di Guidi di mettersi in contatto con Boston ci sono, ma si fermano di fronte a una cortina fumogena impenetrabile. Ed è tutto voluto, pensato. La traduzione è semplice: «Non c’è nemmeno bisogno di discutere – dicono i pochi che sono riusciti a scambiare qualche messaggio con il premier –. Le dimissioni sono l’unica soluzione possibile. Sul governo non ci deve essere nemmeno l’ombra di conflitti d’interesse ». È il 'copia e incolla' del pensiero di Renzi. Solo quando in Italia è notte arrivano le parole istituzionali di 'gratitudine' del premier per il gesto compiuto dal ministro Guidi, che lasciando l’incarico ha evitato all’esecutivo almeno parte della tortura mediatica. Ma a prevalere sono soprattutto amarezza e delusione. Non c’è spazio, almeno in questa vicenda, per il garantismo che ha caratterizzato sinora il Renzi governativo rispetto alle vicende politico-giudiziarie. D’altra parte la nomina del ministro dello Sviluppo era già stata un passaggio faticoso, nato nel clima di intesa che c’era con Berlusconi in quel febbraio del 2014, l’era remota del Nazareno. E quando l’autunno scorso si parlava di rimpasto, l’indiziata numero uno era proprio l’ex confindustriale. La vicenda è così delicata che Renzi non ha ancora trovato la strada per capovolgerla a suo vantaggio. Certamente al rientro il premier rilancerà la legge sul conflitto d’interessi, che ha faticosamente superato il primo scoglio alla Camera e che al Senato avrà più nemici che amici. Ma il vero nodo sarà distinguere il caso specifico che ha coinvolto il compagno di Guidi, Gianluca Gemelli, dalle scelte di politica energetica del governo. Il timore è infatti che i fatti di corruzione e inquinamento in Val d’Agri smentiscano ciò che il premier sostiene da tempo, che le rinnovabili «sono belle e ci puntiamo» ma per i prossimi anni non si potrà fare a meno del petrolio. «Ora rischiamo che il Paese si faccia del male sull’energia », è quanto confessano alcuni consiglieri di Palazzo Chigi. Può crescere il consenso intorno al «sì» al referendum del 17 aprile sulle trivelle. E anche se non si raggiungesse il quorum del 50% più uno, una discreta partecipazione al voto avrebbe comunque peso; sarebbe in ogni caso una voce da ascoltare e una mezza sconfitta per il capo dell’esecutivo, che chiede invece di non andare alle urne. Ma ciò che più si teme è un 'effetto-trascinamento' della vicenda giudiziaria che lede la credibilità del governo e arriva sino alle amministrative e al referendum costituzionale. Anche per questi motivi, non c’era alternativa alle dimissioni. Marco Iasevoli © RIPRODUZIONE RISERVATA
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